LO TSUNAMI LAVORATIVO DELLA IA

3 Giugno 2024

da huffpost.com articolo di R.Maggiolo

C’è un meme, piuttosto usato on-line, in cui un cane con un buffo cappello è seduto a un tavolo con una tazza di caffè o tè, e mentre l’intera stanza attorno a lui prende fuoco dice che “tutto va bene”. Purtroppo, la maggioranza degli imprenditori, dei politici e dei manager italiani hanno un’età tale per cui i meme sanno appena cosa siano. Per cui potremmo usare un’altra metafora, più vicina al loro immaginario: è come se in una fabbrica stesse suonando un allarme anti-incendio e l’ambiente si stesse riempiendo di fumo, ma tutti gli operai stanno fermi ai loro posti di lavoro impegnati a rispettare i tempi per una commessa importante.

L’allarme in funzione è quello che segnala uno tsunami in arrivo, destinato a travolgere le organizzazioni e la società tutta. Una vera propria rivoluzione, forse ancora più profonda e gravida di conseguenze della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Perché se quest’ultima, dal pc all’intelligenza artificiale, ha riguardato e riguarda gli strumenti, quella in corso riguarda invece gli agenti; le persone, i lavoratori. Che stanno cambiando radicalmente in due dimensioni: sia in quella qua.Partiamo dalla dimensione quantitativa: i lavoratori stanno sparendo. Come ben analizzato recentemente da uno studio Adapt, a causa dell’invecchiamento della popolazione anche se mantenessimo gli attualmente bassi tassi di disoccupazione  già nel 2030 avremo 730mila persone in meno nella forza lavoro; nel 2040, meno 2,6 milioni; nel 2050, meno 3,7 milioni – una diminuzione di oltre il 15% della forza lavoro. E si noti bene che si tratta di previsioni con bassissimo margine di incertezza, che un aumento dell’immigrazione o delle politiche a sostegno della natalità potranno solo al massimo contenere. Ma non basta: perché oltre al tema demografico ce n’è anche uno anagrafico. Come ha evidenziato l’Istat nel suo recente rapporto annuale, negli ultimi vent’anni “la forza lavoro risulta invecchiata più velocemente della popolazione: rispetto al 2004, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni è diminuita più velocemente che nella popolazione (-11,5 punti rispetto a -6,3 punti). E l’opposto è avvenuto tra gli ultracinquantenni: più 16,6 contro più 5,3 punti per i 50-64enni, e più 1,6 contro più 4,7 punti per i 65-89enni”.Il fenomeno è evidente anche nel breve periodo.

Come sottolineato dal presidente di Adapt Francesco Seghezzi, nell’ultimo anno su 516mila nuovi occupati oltre il 56% hanno tra i 50 e i 64 anni, e un altro 13,6% sono addirittura over65. Questo ci dice due cose, almeno. Primo: le coorti anagrafiche più popolose stanno arrivando al fine vita lavorativo. Secondo: le aziende italiane non stanno cogliendo l’occasione per innovare davvero; per contaminarsi e capire meglio il proprio tempo, preferendo invece continuare a muoversi sul binario del già conosciuto e del capitalismo relazionale.

Quindi, la popolazione lavorativa invecchia rapidamente, e ci saranno sempre meno persone a disposizione sul mercato. E arriviamo qui alla terza questione riguardo la dimensione quantitativa: quella delle competenze. Argomento, questo, di gran lunga più discusso, ma spesso con pigrizia e superficialità. Perché si parla ossessivamente di digitale, di intelligenza artificiale, di smart working, e si rimane completamente ciechi o quasi sulle vere dimensioni e dinamiche del nostro mercato del lavoro.Se è vero, infatti, che nel prossimo futuro la domanda di ruoli a maggior valore tecnico e scientifico aumenterà, questo rimarrà comunque complessivamente un fenomeno assolutamente marginale. Il grosso della forza lavoro italiana è attiva nei servizi alla persona, nel commercio al dettaglio, nella sanità, nell’istruzione, e in secondo luogo nella manifattura.

Questi sono spesso lavori che non solo è difficile fare in età anziana, ma anche quelli meno esposti all’automazione e meno in grado di accedere a forme di flessibilità lavorativa. E anche quelli che già cominciano drammaticamente a scarseggiare.Una vera tragedia in atto è che per vent’anni almeno abbiamo ossessionato i giovani con l’idea che il loro futuro era nel terziario avanzato – in ufficio a lavorare con computer, per capirci – e li abbiamo spinti a intraprendere quelle carriere, magari anche scoraggiando i loro interessi e inclinazioni. Ora è proprio questo il tipo di occupazione la più esposta all’automazione, per cui i giovani non solo sono pochi e in diminuzione, ma sono anche giustamente restii a ricollocarsi in lavori che per loro rappresentano una sconfitta e una perdita del valore della loro formazione – anche se sempre di più sono costretti a farlo.Infine, c’è anche l’aspetto qualitativo, di cui in questo blog abbiamo scritto spesso. Il patto del lavoro sta cambiando, e le nuove generazioni – che nel prossimo futuro saranno l’unica coorte demografica in crescita, seppur di poco – lo intendono in maniera sensibilmente differente rispetto a quelle precedenti. Semplificando al massimo, per millenni le persone hanno lavorato perché non farlo voleva dire morire di fame; negli ultimi decenni almeno un numero crescente di persone ha lavorato anche o forse soprattutto per “diventare qualcuno”; perché il lavoro “nobilita”, dà dignità ma anche opportunità. Ora entrambe queste leve stanno perdendo di forza.

Oggi le giovani generazioni possono contare su capitali e rendite familiari per cui raramente temono di poter finire un giorno senza una casa o un pasto – questa minaccia semmai gli appare più credibile per via di traumi esterni, come una guerra o il cambiamento climatico. In modo simile, essendo cresciuti in un mondo iperconnesso e digitale, la loro costruzione identitaria passa molto meno dal possesso di quei titoli o beni posizionali a cui il lavoro dà accesso. Perciò l’offerta storica delle organizzazioni, cioè quella di offrire alle persone protezione e appartenenza in cambio di fedeltà e dedizione, è sempre meno attrattiva – e sempre meno lo sarà.Questo non solo rischia di deprivare il nostro Paese di capacità produttiva e innovativa, ma anche e soprattutto di produrre una società sempre più polarizzata e disuguale, e quindi in ultima analisi violenta e disfunzionale. Una società con da una parte lavoratori deboli – giovani, donne, immigrati – costretti in impieghi necessari ma allo stesso tempo malpagati e sfruttati, e dall’altra lavoratori protetti da capitali finanziari e relazionali assieme a milioni di inattivi che vivranno di rendite e pensioni. Per evitare questo scenario servirà necessariamente un vero cambio di paradigma.In tutto questo, cosa stanno facendo le nostre organizzazioni, la nostra classe dirigente? Invece di correre ai ripari paiono vivacchiare, intenti a sfruttare le congiunture del momento o a sopravvivere travolte dall’incertezza sistemica. Si illudono spesso di poter tirare avanti con soluzioni temporanee, come l’outsourcing, l’automazione a basso prezzo o la forza del ricatto verso i lavoratori più deboli. Lo fanno forse anche perché – pensiero inconfessabile, o quasi – vedono la vecchiaia vicina, e pensano di dover tenere duro ancora pochi anni prima di mollare tutto e ritirarsi a godersi la pensione. Scopriranno forse troppo tardi che non ci sarà chi gli porterà il drink in spiaggia o sarà pronto ad accoglierli al pronto soccorso quando ne avranno bisogno.

https://www.huffingtonpost.it/dossier/fintech/2023/11/10/news/fintech_talks_il_racconto_della_giornata-14098460/

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