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COVID GEO 19SOFTWARE E KIT DIAGNOSTICO

Monitoraggio anti Covid per aziende con software e kit diagnostico ...

Covid geo è un sistema che associa la tecnologia digitale alle tecniche di diagnosi rapida multiscreening sul Covid19. Il sistema è ovviamente interessante anche se per certi versi, a mio parere, non di facile gestione per quanto riguarda le leggi di privacy e  la compliance dei lavoratori . Tuttavia è una sicura arma da poter valutare in specifiche realtà lavorative o in caso di grave pandemia .

Riportiamo l’articolo tratto da 01health.it

Il monitoraggio è la soluzione ideale per gestire la nuova normalità a cui ci stiamo lentamente abituando, e in quest’ottica nasce Covid Geo, un sistema costituito dalla combinazione di un software e di un kit diagnostico che consentono di monitorare efficacemente intere aziende e comunità basandosi su una pianificazione di test pungidito ripetuta nel tempo e tenuta sotto controllo da un software che consente di monitorare le condizioni di salute dei singoli soggetti, anche tramite dispositivi elettronici portatili.

Technogenetics ha messo a punto una soluzione per il monitoraggio di realtà produttive, educative, sociali, per prevenire il contagio da Covid-19 permettendo un ritorno al lavoro ed alle attività quotidiane sicuro ed efficiente per i propri dipendenti ed appartenenti alla comunità.

Covid Geo è stato ideato da un raggruppamento di aziende fortemente innovative (di cui Technogenetics è la promotrice) ed è validata da un Comitato Tecnico Scientifico composto da illustri personalità in ambito scientifico (ne fanno parte, ad esempio, Maria Chiara Carrozza, Luigi Nicolais e altri studiosi e scienziati).

Covid Geo si basa su tre step. Prima di tutto screening e diagnosi: il test sierologico pungidito per il personale. Sicuro e non invasivo, fornisce un’indicazione in tempi rapidi (8-15min). Il test verrà ripetuto nel tempo (ogni 2/10 giorni) seguendo una programmazione che permette di individuare focolai sul nascere.

In secondo luogo il monitoraggio: grazie ad una web app facile da usare l’azienda è in grado di monitorare il test plan dei propri lavoratori avendo sempre sotto controllo la situazione. La registrazione e il controllo continuo tramite report dello stato di salute e le dichiarazioni sono sempre conformi alle policy GDPR in materia di trattamento dei dati personali dei dipendenti.

E infine, la geo-sorveglianza: i dipendenti vengono forniti di dispositivi (braccialetti) che consentono di monitorare i parametri biologici (temperatura, battiti, saturazione dell’ossigeno) e avvertono il lavoratore in caso di pericolo (rilevatore di prossimità).

Per il back to work sicuro ed efficiente è essenziale affidarsi a test sicuri e certificati. I test sierologici rapidi, così come i test con prelievo venoso, sono riconosciuti dalla Food & Drug Administration come validi per l’individuazione degli anticorpi di Covid-19; la soluzione di Technogenetics ha ottenuto inoltre la marcatura CE, necessaria per la commercializzazione ed una forte convalida da studi clinici ripetuti in Italia e Svizzera.

 

CANCRO : TEST IDENTIFICA 5 TUMORI 4 ANNI PRIMA

Da ilsole24ore.it

Cancro, l’esame del sangue riconosce 5 tumori in anticipo di quattro anni

di Francesca Cerati

 

La tecnica, chiamata PanSeer, riconosce precocemente nel 91% dei casi, i tumori di stomaco, esofago, colon retto, polmoni e fegato in persone senza sintomi, e in futuro potrebbe entrare nella routine delle analisi di controllo. 

Una tecnica basata sull’analisi del sangue riconosce cinque forme di tumore comuni con un anticipo di quattro anni rispetto alle tecniche tradizionali. Lo indica un’ultima ricerca internazionale pubblicata su Nature Communications e coordinata dall’Università della California a San Diego. La tecnica, chiamata PanSeer, riconosce precocemente nel 91% dei casi, i tumori di stomaco, esofago, colon retto, polmoni e fegato in persone senza sintomi, e in futuro potrebbe entrare nella routine delle analisi di controllo.

Nello studio Taizhou longitudinal study (Tzl), sono stati conservati campioni di plasma dal 2007 al 2014 di 123.115 soggetti sani di età compresa tra 25 e 90 poi monitorati per l’insorgenza del cancro. L’impiego del test PanSeer, un esame del sangue non invasivo basato sulla metilazione del Dna tumorale circolante, su campioni di plasma di 605 individui asintomatici, ha rilevato che 191 di questi hanno poi avuto entro quattro anni dalla prelievo di sangue una diagnosi di cancro allo stomaco, all’esofago, al colon-retto, al polmone o al fegato . I ricercatori hanno analizzato anche campioni di plasma di altri 223 pazienti affetti da cancro, oltre a 200 tumori primari e tessuti normali.

I risultati preliminari mostrano che PanSeer rileva cinque tipi comuni di cancro nell’88% dei pazienti post-diagnosi con una specificità del 96%. E dimostrano anche che PanSeer rileva il cancro nel 95% di individui asintomatici a cui poi è stata fatta una diagnosi di cancro.

Anche se sono necessari futuri studi longitudinali per confermare questi risultati, la ricerca dimostra che il cancro può essere rilevato in modo non invasivo fino a quattro anni prima.

La notizia è l’ultima di una serie di indagini che negli ultimi anni ha avuto come oggetto di studio la cosiddetta biopsia liquida, ovvero una metodica altamente sensibile (basata su un semplice prelievo di sangue periferico) per l’isolamento e l’analisi del Dna libero circolante, che può contenere anche il Dna tumorale circolante e le cellule tumorali  circolanti Ctc. I tumori solidi sono prevalentemente asintomatici e clinicamente non rilevabili fino alla loro vascolarizzazione e fino a quando non raggiungono una massa considerevole (normalmente 1-2 cm in diametro). C’è quindi urgente bisogno di migliori strumenti diagnostici per il cancro. Troppo spesso, gli operatori sanitari possono fare una diagnosi solo dopo che i sintomi si sono sviluppati – a quel punto potrebbe essere troppo tardi l’intervento terapeutico.

Negli ultimi anni sono diversi i team di ricerca che si sono concentrati sulla biopsia liquida. Nel 2018 i ricercatori di Johns Hopkins hanno sviluppato un esame del sangue unico e non invasivo che rileva proteine ​​e mutazioni genetiche di otto tumori comuni. Il test, chiamato CancerSeek, controlla i tumori che rappresentano oltre il 60% dei decessi per cancro negli Stati Uniti.

Pubblicato sulla rivista Science, la ricerca ha studiato campioni di sangue di oltre 1.000 pazienti con tumori non metastatici, da stadio I a III di ovaio, fegato, stomaco, pancreas, esofago, colon-retto, polmone e seno. La sensibilità globale mediana, o la capacità di scovare il cancro, era del 70% e variava da un massimo del 98% per il carcinoma ovarico a un minimo del 33% per il carcinoma mammario.Per i cinque tumori che non hanno test di screening – tumori alle ovaie, al fegato, allo stomaco, al pancreas e all’esofago – la sensibilità variava dal 69% al 98%. Il test è stato eseguito su 812 persone sane e ha prodotto solo sette risultati falsi positivi.

Ad aprile di quest’anno anche una collaborazione tra ricercatori americani e del Regno Unito hanno sviluppato un test che addirittura è in grado di rilevare oltre 50 diversi tipi di cancro, in molti casi prima che si sviluppino segni o sintomi clinici,e hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista Annals of Oncology. Il test funziona utilizzando un tipo di Dna rilasciato dalle cellule tumorali. Questo si riversa nel sangue, dove è noto come Dna privo di cellula (cfDNA). Tuttavia, può essere difficile identificare il cfDNA specifico del tumore, poiché molte altre cellule rilasciano Dna nel sangue.

Questo test invece rileva il Dna che proviene specificamente dalle cellule tumorali mediante l’aggiunta di una sostanza chimica (gruppo metilico), che è associata alla crescita del tumore.Dopo aver isolato il cfDNA dal campione di sangue e averlo sequenziato per trovare le parti metilate, gli operatori sanitari possono inserire i risultati in un computer in grado di riconoscere il Dna derivante da cellule cancerose o non cancerose e quindi prevedere se la persona ha il cancro e anche di che tipo potrebbe essere.

Lo studio ha testato il sangue di oltre 4.000 persone, circa la metà delle quali aveva il cancro (i ricercatori hanno incluso oltre 50 tipi di cancro nello studio). Il test è stato accurato nel 93% dei campioni e ha potuto prevedere con precisione il punto in cui il cancro si era sviluppato per la prima volta nel 96% dei campioni.
Il tasso di falsi positivi è stato solo dello 0,7%, il che significa che meno dell’1% delle persone avrebbe avuto una diagnosi imprecisa usando questo test.

VACCINO OXFORD IRBM POMEZIA ALLA FASE FINALE

La prudenza è d’obbligo, ma se la fase 3, quella finale, della sperimentazione darà come si spera risultati positivi, entro la fine del 2020 arriveranno in distribuzione in tutto il mondo milioni di dosi del vaccino anti-Covid messo a punto dallo Jenner Institute della Oxford University con la collaborazione dell’azienda italiana Irbm di Pomezia. La previsione è del presidente di Irbm Pietro Di Lorenzo (nella foto), dopo la pubblicazione ieri su Lancet dei primi risultati positivi sul vaccino che hanno evidenziato lo sviluppo di anticorpi e di una risposta immunitaria nel 95% del campione di 1.071 soggetti della fase 1 e 2 di sperimentazione.

L’attesa è dunque ora per la fase finale dei test, dalla quale si attende una risposta validata su un campione molto più ampio: in totale saranno infatti coinvolti 30-40mila soggetti in 4 Paesi. La fase 3, spiega Di Lorenzo, “è cominciata in Gran Bretagna ma AstraZeneca, l’azienda farmaceutica che produrrà il vaccino, ha deciso di quadruplicare lo sforzo produttivo per inviare dosi e svolgere i test di fase finale anche in Brasile, Sudafrica ed un altro paese africano. Saranno coinvolti 10mila soggetti per ogni Paese, per un totale di 40mila”. E non saranno solo adulti sani, come nelle prime fasi: del campione faranno parte pure bambini, anziani e soggetti con patologie, ovvero si tratterà di un campione rappresentativo di tutta la popolazione.  I risultati di questi test sono previsti per settembre-ottobre.

Da Dottnet.it

INFORTUNIO O MALATTIA COVID 19 : INAIL E ASSICURAZIONI DUE MONDI DIVERSI

Da ilsole24ore

Alcune categorie di operatori sanitari – i medici di medicina generale e i farmacisti su tutti – contestano il fatto di non godere di adeguate tutele risarcitorie nel caso abbiano contratto il Covid-19 in occasione della loro attività professionale. Lamentano, in particolare, di esser discriminati rispetto ad altri professionisti della sanità che, esposti a un rischio di contagio sostanzialmente analogo, operano con regolare contratto all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata e beneficiano, proprio per questo, degli indennizzi previsti dall’Inail in caso di morte o di invalidità permanente.

Cosa prevedono le polizze sanitarie

Il reclamo sembra poi estendersi fino a riguardare l’operatività delle polizze private infortuni che ciascun professionista ha personalmente stipulato: polizze che, in linea di principio, non coprono – almeno secondo gli assicuratori – il rischio Covid. Il problema nasce dal fatto che durante l’emergenza il legislatore è intervenuto ponendo espressamente a carico dell’Inail la tutela dei lavoratori colpiti dall’infezione da coronavirus in occasione di lavoro. La norma in questione è l’articolo 42 del decreto 18/2020 (convertito nella legge 27/2020) che tratta il coronavirus come un vero e proprio infortunio e non invece come malattia. In seguito a tale disposizione, si è posto l’interrogativo su se l’equiparazione normativa del Covid-19 a un infortunio costituisca una regola generale – applicabile anche al campo delle polizze private – oppure esprima un principio speciale, proprio della normativa emergenziale e valido soltanto in ambito Inail. Il dubbio, che ha ricadute operative molto rilevanti, ha alimentato un acceso dibattito. Alcuni punti fermi meritano di essere ricordate:

Cinque cose da sapere su infortuni e malattie

1. in campo assicurativo si definiscono infortuni gli «eventi dovuti a causa fortuita, violenta ed esterna che provocano lesioni corporali oggettivamente constatabili». Il che evoca, intuitivamente, l’idea di danni alla salute di carattere traumatico, a seguito di episodi violenti, provocati da forze esterne e ad immediata o rapida consumazione temporale;

2. diversa è invece la definizione di malattia, che si caratterizza per esser conseguenza di determinate cause patogene interne, ad azione spesso lenta e comunque progressiva;

3. l’idea di equiparare un’infezione come il Covid-19 all’infortunio non costituisce una novità in ambito Inail. Come indicato dallo stesso istituto in alcune sue circolari, la scelta di «stressare» il concetto di infortunio sino a estenderlo a fenomeni di contagio da virus, risponde a scelte di sostegno sociale e ad esigenze di maggior protezione del lavoratore, specie al cospetto di taluni vuoti di tutela di cui anche la Consulta, già negli anni Ottanta, si era occupata. Ed è in quest’ottica che il coronavirus è stato fatto rientrare apertamente tra gli infortuni indennizzabili dall’Inail.

4. non altrettanto può dirsi per le polizze private infortuni. Al contrario, il perimetro di copertura di quelle polizze – rimesso alla libera determinazione di ciascun assicuratore, in assenza di obblighi di legge – è da sempre stato circoscritto a ciò che nel linguaggio comune si intende per infortunio, inteso come evento traumatico e non certo come malattia infettiva. Se si considera che anche l’influenza o il morbillo sono un’infezione, non vi è dubbio che le assicurazioni private le abbiano trattate come malattie (infettive) e non certo come infortuni. Sembrano qui mancare, peraltro, quei requisiti di «violenza» ed esternalità, trattandosi di fenomeni la cui propagazione sintomatica dipende anche dalla reazione immunitaria individuale;

5. la copertura delle malattie infettive è del resto propria delle polizze malattia, mentre nelle polizze infortuni le infezioni sono talvolta oggetto di garanzia solo in ipotesi particolari, di solito quando si tratta di infezioni contratte a seguito di veri e propri infortuni. Il Covid-19 non sembra, dunque, tipicamente riconducibile entro il normale ambito di copertura dell’assicurazione infortuni.

Questo il quadro della situazione e queste le ragioni per cui i lavoratori colpiti dal Covid-19 possono essere indennizzati dall’Inail a titolo di infortunio, mentre i medici di medicina generale e gli altri operatori della sanità non coperti dall’Inail che abbiano stipulato polizze private infortuni si sentono oggi normalmente rifiutare le loro richieste di risarcimento per il medesimo titolo. Non è del resto semplice ipotizzare che una polizza privata, stipulata e quotata per un rischio diverso dalle malattie infettive, possa oggi esser forzata per ricomprendere il Covid.

Le regole da applicare

Il ruolo di sostegno socio economico riconosciuto al comparto assicurativo privato sarà certamente enfatizzato nei prossimi mesi, durante i quali potrà esser presa in considerazione l’idea di ampliare l’ambito di protezione delle polizze della salute in caso di Covid. Ma ciò non potrebbe che valere per il futuro, dal momento che per tutti i contratti privati già in essere dovranno essere applicate le regole di copertura stabilite al momento della stipula, indipendentemente da quanto il legislatore possa aver stabilito per il ben diverso contesto Inail.

QUANDO I DPI ERANO A FORMA DI BECCO

Da National Geografic

Durante la peste europea del XVII secolo, i medici indossavano maschere con il becco, guanti in pelle e lunghi cappotti, nel tentativo di respingere la malattia. Il loro look iconico e minaccioso, così come ritratto in questa incisione del 1656 di un medico Romano, è riconoscibile ancora oggi.
FOTOGRAFIA DI ARTEFACT, ALAMY

Un tempo la peste era una delle malattie più temute al mondo. Una malattia in grado di spazzare via centinaia di milioni di persone in una pandemia globale apparentemente inarrestabile che affliggeva le sue vittime con dolorosi linfonodi ingrossati, pelle annerita, e altri macabri sintomi.

Nell’Europa del XVII secolo i medici che si prendevano cura delle vittime indossavano un abito che da allora ha assunto connotazioni sinistre: si vestivano dalla testa ai piedi e indossavano una maschera con un lungo becco d’uccello. La ragione dietro a queste maschere anti-peste a becco era dovuta all’errata convinzione sulla reale natura della malattia.

Durante quel periodo di focolai di peste bubbonica – una pandemia che si ripresentò in Europa per diversi secoli – le città agguantate dalla malattia assumevano medici per la peste che praticavano a residenti ricchi e poveri quella che loro facevano passare per “medicina”. Questi esperti di scienza prescrivevano quelle che erano ritenute invenzioni protettive e antidoti alla peste, erano testimoni dei desideri dei malati e svolgevano le autopsie sui cadaveri – e alcuni facevano tutto questo indossando delle maschere con il becco.

A Charles de Lorme, un medico della peste che curò i reali del XVII secolo, viene ...
A Charles de Lorme, un medico della peste che curò i reali del XVII secolo, viene spesso attribuita questa uniforme.
FOTOGRAFIA DI THE PICTURE ART COLLECTION, ALAMY

Questo “costume” è solitamente attribuito a Charles de Lorme, un medico che riuscì a curare molti reali europei durante il XVII secolo, inclusi re Luigi XIII e Gastone di Francia, figlio di Maria de’ Medici. Lui descrisse un abbigliamento composto da un cappotto ricoperto di cera profumata, calzoni alla zuava legati agli stivali, una camicia infilata nei pantaloni, e cappello e guanti in pelle di capra. I medici della peste portavano anche una verga che permetteva loro di colpire (o allontanare) gli appestati.

L’abbigliamento del capo era particolarmente insolito: i medici della peste dovevano infatti indossare occhiali, spiegava de Lorme, e una maschera con un naso “lungo una ventina di centimetri, a forma di becco, pieno di profumo e con due soli buchi – uno per lato accanto alla rispettiva narice – ma che era sufficiente a respirare, e che portava insieme all’aria l’effluvio delle erbe contenute lungo il becco”.

Anche se i medici della peste in tutta Europa indossavano questo abbigliamento, il look era così iconico in Italia che “il medico della peste” divenne un simbolo della commedia dell’arte italiana e delle celebrazioni del carnevale – tanto è vero che è un costume popolare ancora oggi

PROGETTO HEAT SHIELD CALDO E MASCHERINE

Da Insalute.it

Come integrare l’uso di dispositivi di protezione individuale e la gestione degli effetti negativi del caldo sull’uomo, questo il tema dello studio coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Cnr di Firenze e pubblicato su “Science of the Total Environment”. Una efficace misura di contenimento dello stress da caldo è un sistema di allerta personalizzato integrato con consigli comportamentali,basato su caratteristiche ambientali, fisiche, attività svolta, vestiario e dispositivi di protezione indossati. Alla realizzazione di un primo strumento ha partecipato anche il Cnr-Ibe nell’ambito del progetto Heat-Shield e ulteriori implementazioni sono previste nel progetto nazionale Worklimate

 

Roma, 9 luglio 2020 – Uno studio, coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibe) e pubblicato recentemente come “Discussion” sulla rivista Science of the Total Environment, ha analizzato l’interazione tra alcune misure per contrastare la diffusione del Covid-19 e la gestione dello stress da caldo.

“La popolazione per contrastare la diffusione del virus deve usare mascherine e guanti in plastica o lattice, soprattutto se impegnata in particolari attività lavorative dove non è possibile garantire il distanziamento sociale – dichiara Marco Morabito del Cnr-Ibe – Questi dispositivi non sono nati per un utilizzo massivo e prolungato all’aperto in particolare all’esposizione dei raggi solari e non sono testati dal punto di vista microclimatico e del potenziale impatto sulla percezione del disagio termico”.

In questo lavoro sono discusse le varie complicanze dal punto di vista microclimatico legate all’uso di questi dispositivi in condizioni di caldo. Per contrastare la diffusione del Covid-19, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle ultime linee guida raccomanda l’uso delle mascherine tra la popolazione e recenti ricerche scientifiche dimostrano che il loro utilizzo in pubblico rappresenta la misura più efficace per contrastare la trasmissione del virus Sars-Cov-2, è necessario quindi individuare misure e strumenti per riuscire a convivere con tali dispositivi dovendo contemporaneamente gestire l’emergenza caldo.

Il sistema di allerta da caldo personalizzato per i lavoratori, è uno strumento già disponibile online sulla piattaforma del progetto Heat-Shield, che permette,sulla base delle caratteristiche fisiche, del tipo di attività, del vestiario indossato e dell’ambiente di esposizione, di prevedere un rischio da caldo ‘individuale’, integrato con suggerimenti per contrastare la situazione, come idratazione e pause di lavoro. Si tratta di informazioni utili per salvaguardare la salute dei lavoratori e assicurare la produttività di diverse aree professionali”, spiega Morabito.

Una versione più avanzata del dispositivo sarà realizzata nell’ambito di Worklimate, un progetto italiano iniziato il 15 giugno, coordinato dal Cnr e finanziato da Inail, in cui, attraverso l’analisi di casi studio in vari ambiti occupazionali, di questionari somministrati a lavoratori e attività epidemiologiche, sarà migliorato il sistema di allerta da caldo personalizzato, sia con una migliore risoluzione spaziale e temporale sia tenendo in considerazione l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale e di misure igieniche come le cosiddette “mascherine di comunità”, ovvero quelle monouso o lavabili, realizzate con materiali idonei a fornire un’adeguata barriera per naso e bocca.

FOTO ESPOSIZIONE SOLARE E SICUREZZA SUL LAVORO

Da superabile.it

Sono in tanti a svolgere le proprie mansioni all’aperto, soprattutto in questo periodo dell’anno: una situazione che può comportare a causa delle radiazioni notevoli rischi per la salute. I consigli dei ricercatori dell’Inail per cercare di prevenire i danni. 

Gli esperti li chiamano “lavoratori outdoor” perché svolgono una frazione significativa del proprio orario lavorativo all’aperto e sono interessati dalle patologie correlate con l’esposizione a luce solare. Sono gli agricoltori, i giardinieri, i portuali, gli operai, ma anche gli istruttori di sport all’aperto, i benzinai, i portalettere, i bagnini, i vigili urbani e l’elenco non finisce qui. Sono tutte persone che per lavoro devono stare sotto il sole, spesso troppe ore e senza protezione. A loro e ai datori di lavoro è stato dedicato in passato un opuscolo, curato da Adriano Papale, medico ricercatore dell’Inail (ex Ispesl), “La radiazione solare ultravioletta: un rischio per i lavoratori all’aperto”, una guida sempre utile con consigli e le valutazioni sul rischio da esposizione solare, di cui esamineremo in questo approfondimento i principali aspetti suggeriti in ambito preventivo.

Come l’Inail misura la potenza del sole. Il laboratorio Agenti fisici del dipartimento Igiene del lavoro dell’Inail (ex Ispesl) svolge attività di ricerca sulla prevenzione dei rischi di esposizione lavorativa alle sorgenti di radiazioni ultraviolette, visibili e infrarosse di origine artificiale ma anche, e da più tempo, sulle problematiche relative all’esposizione lavorativa alla radiazione ultravioletta solare. Il laboratorio dispone di un radiometro solare situato sul tetto del Centro di ricerca di Monteporzio. Si tratta di uno strumento di precisione che misura la potenza che il nostro sole “dona” al nostro pianeta nelle varie bande dello spettro elettromagnetico, in particolare, misura la potenza per unità di superficie (irradianza) nelle bande Uva e Uvb. Da questi dati è possibile ricavare l’Uv-Index, una semplice scala di valori da zero a 11, che permette di quantificare con estrema semplicità il fattore di rischio di esposizione alla radiazione ultravioletta solare da “basso” (1-2), a “medio” (3 a 5) fino a “molto alto” (da 6 a 10). Questi studi sono coordinati da Massimo Borra, ricercatore, che ha progettato un portale per gestire, visualizzare e condividere i dati dei radiometri istallati e di tutti i futuri radiometri di altre istituzioni pubbliche o meno che vorranno utilizzare i vantaggi della rete.

I rischi da eccessiva esposizione ai raggi Uv. La radiazione solare ultravioletta deve essere considerata a tutti gli effetti un rischio di natura professionale per tutti i lavoratori outdoor e deve essere posto alla stregua di tutti gli altri rischi (chimici, fisici, biologici) presenti nell’ambiente di lavoro. La permanenza al sole per un periodo più o meno prolungato (la variabilità è soggettiva) può provocare, in particolare se la pelle non è già abbronzata, la comparsa dell’eritema solare. Se l’esposizione è stata particolarmente intensa possono comparire vescicole o bolle seguite da erosioni (ustioni solari). Altro tipo di lesione cutanea è la fotosensibilizzazione, reazione secondaria all’assunzione di alcune sostanze (soprattutto farmaci o composti chimici fotosensibilizzanti contenuti in creme, cosmetici o profumi), con meccanismo tossico o allergico nel momento in cui ci si espone al sole.

Dal fotoinvecchiamento alle neoplasie. Fenomeni rilevanti a carico della cute sono anche il fotoinvecchiamento e la foto carcinogenesi, effetti cronici che derivano dall’accumularsi dei danni causati da esposizioni prolungate nel tempo (anni), al sole e/o a fonti artificiali e sono tanto più precoci e marcati quanto più la pelle è chiara o non adeguatamente protetta. Le neoplasie cutanee possono essere di origine epiteliale come le cheratosi solari, gli epiteliomi spinocellulari (o squamocellulari) e gli epiteliomi basocellulari e di origine melanocitica, come il melanoma. L’esposizione cumulativa ai raggi ultravioletti favorisce l’instaurarsi dell’epitelioma (o carcinoma) squamocellulare. Questa neoplasia infatti presenta un’incidenza massima nelle persone con una esposizione ai raggi Uv cumulativa elevata nel corso della propria vita e tipicamente in chi svolge un’attività lavorativa all’aperto – come marinai e agricoltori – e le sedi più frequentemente colpite sono quelle più esposte al sole (volto, cuoio capelluto, dorso delle mani).  Per quanto riguarda invece la relazione esistente tra esposizione a raggi Uv e insorgenza del carcinoma basocellulare e del melanoma maligno, gli studi indicano che le due neoplasie sono legate a un’esposizione massiva al sole, soprattutto in chi tende più a scottarsi. Il rischio di melanoma è maggiore nelle aree corporee coperte, cioè non abituate al sole e, sottolineano gli esperti, per i soggetti che normalmente non si espongono al sole per motivi professionali.

Ma quanto sono esposti i lavoratori outdoor? La ricerca “Neoplasie cutanee non-melanoma nei lavoratori professionalmente esposti a radiazione solare ultravioletta”, condotta (nel 2007) dalle sezioni di Medicina del lavoro e tossicologia occupazionale e di Dermatologia dell’Università degli studi di Siena, in collaborazione con il dipartimento di Medicina del Lavoro Inail (ex Ispesl) e il Dipartimento di Prevenzione della Ausl n.7 di Siena, ha evidenziato che i lavoratori outdoor del comparto agricolo della Toscana sono esposti a dosi elevate di radiazione solare ultravioletta. Tipici valori di Med (minima dose d’esposizione alla radiazione solare per produrre arrossamento entro le 24 ore successive) per un individuo caucasico, debolmente pigmentato, vengono largamente superati (per un fattore da 6 a 30 volte) anche all’inizio della stagione lavorativa outdoor (Aprile). L’età media dei casi epitelioma riscontrati occorsi nella popolazione agricola studiata si è rivelata molto alta, compatibile con il lungo periodo di latenza della neoplasia, con un’esposizione lavorativa media alle radiazioni solari molto lunga (42,9 anni nei maschi e 36,3 anni nelle femmine).

Le tutele legislative: un aggiornamento. La legislazione riguardante la protezione dagli Uv risale al 1956. La protezione dei lavoratori nei confronti degli agenti fisici è oggi disciplinata al titolo VIII del D.lgs 81/2008. Il capo V del titolo VIII del D.lgs 81/2008 recepisce la direttiva 2006/25/CE e si applica solo ai lavoratori esposti a radiazioni ottiche artificiali durante il lavoro. Visto che il campo di applicazione del D.lgs 81/2008 è esteso a tutti i rischi per i lavoratori, la valutazione dei rischi e le relative misure di tutela vanno poste in atto anche per i lavoratori esposti a radiazioni ottiche di origine naturale, in pratica alla radiazione solare. La norma Uni En 14255 “Misura e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti” è composta da 4 norme che trattano le sorgenti articiali; tra queste la terza, la Uni En 14255-3, si applica, invece, al caso di esposizione residenziale e lavorativa alla radiazione solare e può essere utilizzata come indicazione per effettuare una valutazione del rischio occupazione alla radiazione naturale. Attualmente il decreto ministeriale 9 aprile 2008 (G.U. n. 169 del 21 luglio 2008) “Nuove tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura” ha inserito la seguente voce tra le malattie tabellate “malattie causate da radiazioni solari”: cheratosi attiniche; epiteliomi cutanei delle sedi fotoesposte; altre malattie causate dalla esposizione professionale alle radiazioni solari.

Le strategie di protezione: i consigli degli esperti. La fotoprotezione ambientale, come sottolinea Papale, consiste nell’attuare una sorta di schermatura con teli e con coperture, ove possibile, e fornire cabine schermate per i lavoratori che devono sostare a lungo all’aperto. Per creare zone d’ombra esistono anche strutture portatili (simili a ombrelloni) che il lavoratore sposta secondo le proprie esigenze. Bisognerebbe poi sfruttare le ombre degli alberi o di costruzioni vicine e fornire al lavoratore un luogo ombreggiato per le pause.  Un altro consiglio è l’organizzazione dell’orario di lavoro: durante le ore della giornata in cui gli Uv sono più intensi (ore 10/14 oppure 11/15 con l’ora legale) dedicarsi ai compiti svolti all’interno, riservando quelli all’esterno per gli orari mattutini e serali.

L’importanza di creme solari, abiti adeguati e occhiali. Anche i prodotti antisolari (creme con filtri solari) hanno dimostrato la loro validità nel ridurre l’incidenza sia di alterazioni neoplastiche epiteliali della cute sia il fotoinvecchiamento. E ancora indossare un cappello in tessuto anti Uv, a tesa larga e circolare (di almeno 8 cm.) per proteggere capo e viso. Quando si lavora al sole, anche se fa caldo non bisogna scoprirsi, vanno usati invece abiti leggeri e larghi, maniche e pantaloni lunghi e tessuti che proteggano dai raggi Uv. Non dimentichiamo infine di proteggere gli occhi. Infatti l’esposizione per una o due ore senza protezione, può determinare arrossamento e bruciore (cheratite) dovuta alla radiazione Uva che può favorire, soprattutto nei più giovani, la formazione precoce di cataratta. Gli occhiali da sole proteggono anche da quella parte dello spettro visibile ancora molto energetica (luce blu) che, raggiungendo la retina e contrariamente agli Uva assorbiti tra la cornea e il cristallino, può provocare, reazioni fototossiche alla base di potenziali effetti di degenerazione maculare senile.

La prevenzione più efficace? Un po’ di “buon senso”. Insomma, come rileva Massimo Borra, l’esposizione alla radiazione solare deve essere “pensata” per poterne godere degli aspetti benefici e salutari senza incorrere, o perlomeno rendendo minimi, gli immancabili ma “naturali” effetti dannosi. “Per lavorare correttamente all’aperto limitando i rischi di esposizione alla radiazione solare dobbiamo solo ritrovare il “buon senso al sole” dei nostri nonni e bisnonni contadini, che si alzavano all’alba per mietere il grano, riposavano all’ombra durante le ore di canicola e vestivano camicie e cappelloni di paglia”, conclude Borra. “Se poi consideriamo che forse non sapevano neppure leggere e che “sicurezza del lavoro” forse significava solamente “certezza di un salario” alla fine della giornata, allora possiamo essere sicuri che, se ci sono riusciti loro, con un po’ di “buon senso” anche noi, oggi, possiamo lavorare nel modo corretto “alla luce del sole”. (fonte Inail)

MICOTOSSINE IN AMBITO AGRO-ZOOTECNICO

Da Inail.it

Contaminazione da micotossine in ambito agro-zootecnico

L’opuscolo è il prodotto finale di una manifestazione d’interesse voluta da Inail, Direzione regionale Campania, e il Dipartimento di medicina veterinaria e produzioni animali dell’Università di Napoli, Federico II.

Immagine Contaminazione da micotossine in ambito agro-zootecnico

I micromiceti e le micotossine (metaboliti fungini tossici), sono contaminanti naturali rinvenibili frequentemente nei prodotti dell’agricoltura. Essi possono costituire un’importante causa o concausa determinante l’insorgenza o la progressione di patologie respiratorie (sindrome da polveri organiche tossiche, effetti irritativi, tosse, asma, bronchiti croniche, neoplasie). I soggetti maggiormente esposti sono tutti i lavoratori che a vario titolo maneggiano i prodotti di origine agricola anche provenienti, attraverso mezzi di trasporto, da vari paesi del mondo.

Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

GENERATORI DI CALORE E SICUREZZA

Generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso per impianti centrali di riscaldamento

Il documento descrive le fasi di cui si compone l’attività di prima verifica periodica dei generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso per impianti centrali di riscaldamento utilizzanti acqua calda sotto pressione con temperatura dell’acqua non superiore alla temperatura di ebollizione alla pressione atmosferica, aventi potenzialità globale dei focolai superiore a 116 kw.

Immagine Generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso per impianti centrali di riscaldamento

Il lavoro fornisce le indicazioni per la gestione tecnico-amministrativa della verifica, comprensiva delle istruzioni, la compilazione della scheda tecnica e del verbale di prima verifica periodica.

Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Si – Consultabile anche in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

SMART WORKING E BUONI PASTO

Il dipendente che, post Covid-19, è rimasto a lavorare in smart working, NON HA DIRITTO A RICEVERE IL BUONO PASTO, nonostante i propri turni di lavoro includano la fascia oraria del pranzo

 

Il quesito. A seguito dell’emergenza sanitaria ho cominciato a lavorare in smart working nella mia azienda con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Sono un impiegato addetto al servizio call center della gestione emergenze. Lavoro con un sistema di turnazione che, allorché mi recavo in azienda, mi dava diritto al buono pasto.
Il mio datore di lavoro ritiene che con il sistema di smart working io non abbia più diritto al ticket, nonostante i miei orari di lavoro (7.30–15.30, 15.30–23.30, 23.30–7.30) non siano cambiati, costringendomi dunque a lavorare anche durante i pasti. Il diritto al buono pasto cessa in presenza di condizioni di lavoro che non siano vincolate, ma, avendo io il vincolo della turnazione, la fattispecie non sarebbe quella del telelavoro? In questo caso il ticket non sarebbe ugualmente un mio diritto?
 G.C. – Napoli

La risposta. La ripartizione in turni dell’attività lavorativa non implica necessariamente che l’istituto applicabile al caso di specie sia quello del telelavoro (caratterizzato da una diversa disciplina), dal momento che la ripartizione in turni atterrebbe a esigenze di carattere organizzativo dell’impresa.Per quanto concerne i buoni pasto, l’articolo 20 della legge 81/2017 prevede che il lavoratore la cui prestazione lavorativa viene resa in modalità cosiddetta agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno della azienda.

A tale riguardo occorre, tuttavia, precisare che l’articolo 6 del Dl 333/1992 (convertito con legge 359/1992) esclude, in linea generale, la connotazione retributiva dell’indennità di mensa, in quanto servizio sociale predisposto nei confronti della generalità dei lavoratori, salvo che la contrattazione collettiva non ne preveda una diversa qualificazione.Pertanto, ove la contrattazione collettiva preveda l’erogazione di una indennità sostitutiva alla generalità dei lavoratori, inclusi coloro che, in concreto, non utilizzano il servizio mensa, questa indennità perderebbe il suo carattere assistenziale, per assumere natura retributiva e diventare computabile negli istituti retributivi differiti.

Diversamente, non vi sarebbero i presupposti per il riconoscimento dei buoni pasto ai lavoratori che svolgono l’attività lavorativa in modalità cosiddetta agile.

Il quesito è tratto dall’inserto L’Esperto risponde, in edicola con Il Sole 24 Ore di lunedì 13 luglio 2020