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VACCINATI COVID E MEDICO COMPETENTE: LE FAQ DEL GARANTE DELLA PRIVACY

Da Dottnet.it

Il datore di lavoro può chiedere ai propri dipendenti di vaccinarsi contro il Covid per accedere ai luoghi di lavoro e per svolgere determinate mansioni, ad esempio in ambito sanitario? Può chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati? O chiedere conferma della vaccinazione direttamente ai lavoratori?

A queste domande ha risposto il Garante per la privacy con le Faq pubblicate sul sito www.gpdp.it. L’intento dell’Autorità è quello di fornire indicazioni utili ad imprese, enti e amministrazioni pubbliche affinché possano applicare correttamente la disciplina sulla protezione dei dati personali nel contesto  emergenziale, anche al fine di prevenire possibili trattamenti illeciti di dati personali e di evitare inutili costi di gestione o possibili effetti discriminatori.

Nelle Faq è spiegato che il datore di lavoro non può acquisire, neanche con il consenso del dipendente o tramite il medico compente, i nominativi del personale vaccinato o la copia delle certificazioni vaccinali. Ciò non è consentito dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro né dalle disposizioni sull’emergenza sanitaria. Il consenso del dipendente non può costituire, in questi casi, una condizione di liceità del trattamento dei dati. Il datore di lavoro può, invece, acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica redatti dal medico competente.

Il Garante ha chiarito inoltre che – in attesa di un intervento del legislatore nazionale che eventulamente imponga la vaccinazione anti Covid-19 quale condizione per lo svolgimento di determinate professioni, attività lavorative e mansioni – nei casi di esposizione diretta ad “agenti biologici” durante il lavoro, come nel contesto sanitario, si applicano le disposizioni vigenti sulle “misure speciali di protezione” previste per tali ambienti lavorativi (art. 279 del d.lgs. n. 81/2008).

Anche in questi casi, solo il medico competente, nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario e il contesto lavorativo, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti. Il datore di lavoro deve quindi limitarsi attuare, sul piano organizzativo, le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità.

Le Faq

1. Il datore di lavoro può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione? 

NO. Il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19. Ciò non è consentito dalle disposizioni dell’emergenza e dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il datore di lavoro non può considerare lecito il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione sulla base del consenso dei dipendenti, non potendo il consenso costituire in tal caso una valida condizione di liceità in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo (considerando 43 del Regolamento).

2. Il datore di lavoro può chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati?

NO. Il medico competente non può comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati. Solo il medico competente può infatti trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica (artt. 25, 39, comma 5, e 41, comma 4, d.lgs. n. 81/2008). Il datore di lavoro può invece acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni in essi riportati (es. art. 18 comma 1, lett. c), g) e bb) d.lgs. n. 81/2008).

3. La vaccinazione anti covid-19 dei dipendenti può essere richiesta come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni (ad es. in ambito sanitario)?

Health workers wearing face masks get vaccinated at Civico Hospital. “Civico” Hospital in Palermo Kicks-off Sicily’s Covid-19 Vaccination Campaign. After the Italian Army’s delivery of the Pfizer-BioNTech COVID-19 Vaccine to Doctor Francesco Gervasi, who stored it in the Oncology Department, a first group of medical and health workers at risk had been vaccinated in the morning.” (Photo by Valeria Ferraro / SOPA Images/Sipa USA) (Palermo – 2020-12-27, Valeria Ferraro / SOPA Images / IPA) p.s. la foto e’ utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Nell’attesa di un intervento del legislatore nazionale che, nel quadro della situazione epidemiologica in atto e sulla base delle evidenze scientifiche, valuti se porre la vaccinazione anti Covid-19 come requisito per lo svolgimento di determinate professioni, attività lavorative e mansioni, allo stato, nei casi di esposizione diretta ad “agenti biologici” durante il lavoro, come nel contesto sanitario che comporta livelli di rischio elevati per i lavoratori e per i pazienti, trovano applicazione le “misure speciali di protezione” previste per taluni ambienti lavorativi (art. 279 nell’ambito del Titolo X del d.lgs. n. 81/2008). In tale quadro solo il medico competente, nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e lo specifico contesto lavorativo e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica. Il datore di lavoro dovrà invece limitarsi ad attuare le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità alla mansione cui è adibito il lavoratore (art. 279, 41 e 42 del d.lgs. n.81/2008).

VACCINAZIONE COVID E FORZA DELLA SUA IMMUNITA’

dal corriere.it

I vaccini ci proteggono anche dalle varianti del coronavirus? Ha senso prolungare l’intervallo tra la prima e la seconda dose per «proteggere» più persone o, addirittura, come proposto da alcuni,limitarsi a una sola iniezione ? I timori e i dubbi sull’efficacia dei vaccini anti-Covid sono legittimi di fronte alla situazione mondiale della pandemia.

Per quanto riguarda le varianti ( oggi preoccupa soprattutto la variante brasiliana) gli esperti non escludono che alcune mutazioni possano sfuggire agli anticorpi indotti dai vaccini oggi esistenti, ma sottolineano anche che i vaccini a base di Rna messaggero possono essere modificati con facilità in base a nuove esigenze. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha chiesto uno sforzo globale per sequenziare e condividere più genomi del virus, in modo da tracciare le mutazioni.

La variante inglese B.1.1.7 si sta diffondendo rapidamente nel Regno Unito, Irlanda, Danimarca. C’è poi la 501Y.V2, identificata in Sudafrica: in laboratorio alcune delle sue mutazioni, indicate con le sigle E484K e K417N, hanno mostrato di ridurre l’impatto degli anticorpi monoclonali e del plasma dei convalescenti. La variante P.1 identificata a Manaus in Brasile sembra avere mutazioni simili ed è già stata identificata in Giappone. Non sappiamo però come questi nuovi ceppi stiano influendo sul corso della pandemia. In Gran Bretagna è stato creato il consorzio G2P-UK per studiare gli effetti delle mutazioni emergenti. Finora Sars-CoV-2 non sembra essere diventato “resistente” ai vaccini, ma secondo l’Oms è urgente mettere in campo una sorveglianza efficiente per rilevare le varianti e vaccinare in fretta quante più persone possibile.

Un caso paradigmatico è quello di Israele, dove sono già stati somministrati quasi 2,5 milioni di dosi di vaccini (28% della popolazione). Una campagna massiccia, cui è stato affiancato un lockdown per potenziarne i risultati. I primi dati sembrano positivi. Clalit HMO, la più grande organizzazione di servizi sanitari israeliana, ha confrontato due gruppi: 200 mila vaccinati e 200 mila non vaccinati di pari età e profili di salute. Fino al dodicesimo giorno dall’inoculazione del primo gruppo, non c’era differenza nei tassi di infezione. Il 13esimo giorno, scrive il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, è successo qualcosa: il gruppo vaccinato ha mostrato un calo del 33% nel numero di persone infette, rispetto al gruppo non vaccinato. Nei giorni seguenti la differenza è rimasta, con un intervallo variabile tra il 20 e il 40%.
Israele rappresenta un «esperimento scientifico» anche sotto un altro aspetto: la possibilità di ritardare la seconda dose secondo la schedula prevista negli studi clinici. Un grosso azzardo, secondo molti esperti, perché la piena efficacia del vaccino si raggiunge solo a una settimana di distanza dalla seconda dose. Lo conferma una notizia riportata dal Times of Israel, secondo cui all’inizio di gennaio, tra i circa un milione di vaccinati, a circa 240 è stato diagnosticato il virus giorni dopo l’iniezione. Escluso che il vaccino possa essere in sé causa di infezione (dato che non contiene parti del virus), si tratta di una conferma della necessità di continuare a proteggersi dopo la prima dose, perché il corpo impiega tempo per produrre anticorpi efficaci.

Finora gli studi sul vaccino Pfizer hanno dimostrato che la protezione comincia a svilupparsi 8-10 giorni dopo la prima iniezione e solo al 50% di efficacia. Ecco perché la seconda dose, somministrata 21 giorni dopo la prima, è fondamentale: rafforza la risposta del sistema immunitario, portando l’efficacia al 95% e garantendo l’immunità. Un livello che viene raggiunto una settimana dopo la seconda dose, 28 giorni dopo la prima. Ecco perché chiunque si infetti pochi giorni prima di ricevere il vaccino o del raggiungimento della piena efficacia è ancora in pericolo di sviluppare sintomi. Un altro punto importante è che gli studi non hanno ancora determinato se il vaccino blocchi l’infezione e quindi la trasmissione: la mucosa nasale potrebbe comunque ospitare particelle virali in moltiplicazione (senza danneggiare il portatore, protetto dagli anticorpi) e non è escluso che, espellendole attraverso naso e bocca, il vaccinato possa trasmettere il contagio ad altri.

Ecco perché, di fronte a queste incertezze (che si chiariranno nei prossimi mesi con ulteriori studi), è importante seguire le regole. «Pensiamo sia bene rispettare il termine di intervallo di tre settimane fra prima e seconda dose – ha detto il commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri -. Inoltre se ci si vaccina con Pfizer è consigliabile che la dose di richiamo la si faccia con lo stesso vaccino”. «È importante che la schedula vaccinale venga mantenuta e chi ha ricevuto la prima dose abbia la possibilità di avere la seconda nei tempi che sono stati dettati dall’approvazione – conferma a Sky Tg24 Marco Cavaleri, responsabile Strategia vaccini dell’Agenzia europea per i medicinali -. Andrebbe fatta a tre settimane, è ragionevole darla anche qualche giorno dopo ma è importante che avvenga in tempi il più vicini possibile a tre settimane. Più si aspetta e più c’è il rischio che il soggetto non venga protetto”. Con una strategia vaccinale che preveda l’uso per tutti di una prima dose ritardando il richiamo, «rischiamo di vaccinare il doppio e non proteggere nessuno – aggiunge Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità pubblica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano -. Sono molto contrario a dilazionare le dosi di vaccino, facendo la prima dose e rimandando la seconda. Sarei molto rigoroso, invece, sulle indicazioni previste. Non ci sono dati che ci possano confortare su altre strategie. Se poi ci saranno altre evidenze le analizzeremo».

Clelia Di Serio è professore di Statistica medica presso la facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano. Ritiene che i dati possano aiutarci a comprendere meglio i meccanismi di diffusione della pandemia e gli effetti delle cure, ma solo se usati correttamente. E che l’efficacia dei vaccini dimostrata negli studi clinici non sia un numero su cui si può «trattare». «Bisogna essere particolarmente attenti dopo aver ricevuto la prima dose perché psicologicamente possiamo sentirci protetti, ma non è così – afferma -, ci sono stati infatti casi di infezioni, dovuti semplicemente al fatto che, come previsto, l’efficacia si raggiunge una settimana dopo la seconda dose. L’effetto di “falsa sicurezza” potrebbe essere devastante per la ripresa della circolazione del virus. Chi si vaccina dovrebbe sentirsi “protetto” solo dopo le due iniezioni, ma anche allora non è certo se sia protetto anche chi ci è vicino e non è vaccinato. Il compito del richiamo è quello di amplificare la risposta iniziale, non sappiamo che cosa possa succedere se ritardiamo questo passaggio. Il rischio, anzi, è che anche la seconda dose possa diventare inutile se trascorre troppo tempo, dato che potrebbe calare lo stimolo a produrre anticorpi. È fondamentale che Paesi, Regioni, Asl tengano da parte le scorte per somministrare le seconde dosi”.

Basandosi sull’analisi di quanto accaduto finora e sulle caratteristiche dei coronavirus, per Clelia Di Serio non bisogna fare confusione: il raggiungimento di un’eventuale immunità di gregge non è certo possa considerarsi l’obiettivo di questo vaccino nel medio periodo (come confermato dall’Oms). Innanzitutto non sappiamo quanto e per quanto a lungo il vaccino ci protegga da una reinfezione e dalla trasmissione e poi non sappiamo come e quanto velocemente il virus muterà e se i vaccini riusciranno ad adattarsi con la stessa rapidità. Il vaccino avrà sicuramente un effetto molto importante sull’abbassamento della curva dei decessi, delle infezioni e sul tasso di letalità, soprattutto se andrà a coprire le fasce fragili. “Sars-CoV-2, a differenza della prima Sars, provoca moltissime infezioni asintomatiche, ecco perché è difficile pensare di liberarcene definitivamente. Dovremo probabilmente imparare a conviverci – finché sarà endemico – e con il tempo stiamo diventando sempre più capaci di diagnosticarlo rapidamente, e curarlo. Per ora quello che possiamo e dobbiamo fare è continuare a seguire le regole di prevenzione (mascherina, distanziamento e igiene delle mani), anche dopo essere stati vaccinati. Si tratta dei primi vaccini a base di mRna che vengono sperimentati a livello di massa, non ne abbiamo avuti altri prima di questa pandemia, ecco perché serve molta prudenza. Ed è necessario che proceda parallelamente anche la ricerca di nuove terapie efficaci, per curare chi si ammala».

IL CALENDARIO DELLE VACCINAZIONI COVID 19 IN ITALIA

 L’Italia si appresta ad affrontare la più grande campagna vaccinale di tutti i tempi, via maestra per sconfiggere il Covid. Il vaccino verrà somministrato gratuitamente a tutti gli italiani, in tempi diversi a seconda della professione, dell’età e delle patologie. A illustrare il piano alle Camere il ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha snocciolato i numeri.  A iniziare dalle oltre 202 milioni di dosi che il nostro Paese si è assicurato come opzione. L’obiettivo per raggiungere l’immunità di gregge è vaccinare il 70% della popolazione, ossia qualcosa come 42 milioni di italiani. Tutte le domande e le risposte:

Quante dosi abbiamo a disposizione

Perché allora 202 milioni di dosi? Per avere “una dotazione sufficientemente ampia per poter potenzialmente vaccinare tutta la popolazione e conservare delle scorte di sicurezza”, ha spiegato Speranza. “Con le conoscenze oggi a nostra disposizione è molto probabile che saranno necessarie due dosi per ciascuna vaccinazione, a breve distanza temporale. Va inoltre ricordato che non vi è ancora evidenza scientifica sui tempi esatti di durata dell’immunità prodotta dal vaccino. La scelta compiuta anche in questo caso è ispirata al principio di massima precauzione”.

Quali sono le aziende coinvolte

Se tutti i processi autorizzativi andassero a buon fine l’Italia potrebbe contare sulla disponibilità delle seguenti dosi: per il contratto con AstraZeneca 40,38 milioni di dosi, per il contratto con Johnson & Johnson 53,84 milioni di dosi, per il contratto con Sanofi 40,38 milioni di dosi, per il contratto con Pfeizer-BioNTech 26,92 milioni di dosi, per il contratto con CureVac 30,285 milioni di dosi, per il contratto con Moderna 10,768 milioni di dosi.

Quali le date?

EMA potrebbe esprimersi il 29 dicembre sul vaccino Pfizer-Biontech e il 12 gennaio sul vaccino Moderna. Queste due aziende nel primo trimestre dell’anno prossimo da contratto dovrebbero fornire all’Italia rispettivamente 8,749 milioni di dosi Pfizer-Biontech e 1.346.000 di dosi Moderna

Il vaccino sarà sicuro?

Per il ministro Speranza, la produzione e la distribuzione del vaccino non può essere regolata unicamente dalle leggi del mercato. “L’Europa ha scelto la strada del non abbreviare le fasi di studio e sperimentazione dei candidati vaccini, continuando a subordinare la messa in commercio al parere definitivo e vincolante dell’EMA. L’accelerazione dei tempi è stata realizzata facendo procedere in parallelo le diverse fasi di sperimentazione, produzione ed autorizzazione”

Sarà obbligatorio?

Al momento non è intenzione del Governo disporre l’obbligatorietà della vaccinazione. “Nel corso della campagna – ha spiegato Speranza – valuteremo il tasso di adesione dei cittadini. Il nostro obiettivo è senza dubbio raggiungere al più presto l’immunità di gregge”.

Il calendario vaccinale

Da fine gennaio dunque si potrebbe partire con la vaccinazione in base alle fasce di priorità individuate. Poi si procederà alla vaccinazione di massa della restante popolazione, verosimilmente tra primavera ed estate.

Chi verrà vaccinato?

Sono tre le categorie che avranno la priorità nella somministrazione del vaccino. La prima è quella degli operatori sanitari e socio-sanitari. “Lavorando e operando in prima linea – ha spiegato Speranza – essi hanno un rischio più elevato di essere esposti all’infezione da Covid-19 e di trasmetterla a pazienti suscettibili e vulnerabili in contesti sanitari e sociali. Difendere questi professionisti in prima linea aiutera’ a mantenere la resilienza del Servizio sanitario nazionale”.

La seconda categoria è quella dei residenti e personale dei presidi residenziali per anziani, questo a causa dell’alto rischio di malattia grave a causa dell’età avanzata, la presenza di molteplici comorbilità e la necessità di assistenza per alimentarsi e per altre attività quotidiane.

La terza categoria è quella delle persone in età avanzata. Un programma vaccinale basato sull’età è generalmente più facile da attuare e consente di ottenere una maggiore copertura vaccinale.

In particolare parliamo di 1.404.037 persone tra gli operatori e lavoratori sanitari e socio-sanitari; 570.287 persone tra personale ed ospiti dei presidi residenziali per anziani; 4.442.048 anziani over ottant’anni; 13.432.005 persone dai sessanta ai settantanove anni; 7.403.578 persono con almeno una comorbilità cronica. “Alcune di queste categorie naturalmente saranno le prime a ricevere il vaccino. Naturalmente, con l’aumento delle dosi si inizieranno a sottoporre a vaccinazione le altre categorie di popolazione, tra le quali quelle appartenenti ai servizi essenziali quali anzitutto gli insegnanti e il personale scolastico, le Forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità“, ha precisato Speranza.

L’esercito dei ‘vaccinatori’

Nella fase iniziale della campagna vaccinale si prevede una gestione centralizzata della vaccinazione, con l’identificazione di siti ospedalieri o peri-ospedalieri e l’impiego di unità mobili destinate alla vaccinazione delle persone impossibilitate a raggiungere i punti di vaccinazione. Il personale delle unità vaccinali sarà costituito da un numero flessibile di medici, infermieri, assistenti sanitari, operatori socio-sanitari (OSS) e personale amministrativo di supporto. Si stima al momento un fabbisogno massimo di circa 20.000 persone.

In fase avanzata, il modello organizzativo vedrà via via una maggiore articolazione sul territorio, seguendo sempre di più la normale filiera tradizionale, incluso il coinvolgimento degli ambulatori vaccinali territoriali, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, della sanità militare e dei medici competenti delle aziende.

COVID: GUARITI E VACCINATI PROBABILITA’ DI REINFEZIONE

Da “il corriere.it”

Articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Ad oggi, in Italia, i guariti ufficiali dal Covid-19, ,cioè coloro a cui è stata diagnosticata la positività al virus e poi la sua scomparsa, superano il milione. Il 61% coinvolge la popolazione nell’età più produttiva (dai 20 ai 59 anni), il 26% dai 60 anni in su, il 13% dai 19 anni in giù. Il 51,5% femmine, il 48,5% maschi. Tutte queste persone possono essere considerate immuni
Calano gli anticorpi, ma resta la memoria

Numerosi studi ormai concordano: quando si contrae il Covid, il 93% dei contagiati produce gli anticorpi neutralizzanti (del Fante et al., Transfusion 2020) . La loro funzione è quella di impedire al virus di penetrare nelle cellule. Ciò succede tra i 6 e i 20 giorni dal contagio (Quan-Xin long, Nature Communication 2020) e il meccanismo è questo: dopo l’infezione si attivano i linfociti B che producono gli anticorpi IgM, IgG e IgA. Un loro sottoinsieme (IgG e IgA) è quello che poi riesce a rendere innocue le nuove particelle virali. Gli anticorpi neutralizzanti, a loro volta, si accompagnano all’attivazione delle cellule killer (linfociti T), specializzate nel riconoscere e nel distruggere il virus (Cassaniti et al., in preparation-confidential).

Tutta questa spiegazione è utile a capire perché, quando il Covid attacca, la risposta immunitaria è doppia (linfociti B e T). Una volta superata l’infezione, nelle settimane o nei mesi successivi, gli anticorpi calano: non c’è più il virus, non c’è più bisogno di loro. Nell’organismo però restano le cellule memoria, pronte a intervenire in caso di necessità. L’ipotesi che il calo di queste «difese» esponga quindi a un nuovo ricontagio viene smentita.

Le mutazioni osservate

Il parallelo che spesso viene fatto con l’influenza può essere fuorviante: in questo caso il fatto che ci riammaliamo non è dovuto al calo degli anticorpi, ma alla mutazione molto frequente del virus, e che il sistema immunitario non riconosce più le varianti mutate. Il Covid-19, anche se è un virus simile a quello dell’influenza, sembra avere un genoma più stabile e la risposta che genera il sistema immunitario è verso più frammenti delle proteine virali e non uno solo. Infatti le mutazioni osservate finora (e, forse, anche la nuova variante inglese, almeno fino a prova contraria) non sono associate a un cambio di severità della malattia.

(…) le mutazioni finora osservate finora (…) non sono associate a un cambio di severità della malattia.

Tutti gli studi finora dimostrano che si produce una risposta immunitaria che dura nel tempo. A quantificare con più precisione questo «tempo» c’è il recentissimo studio svolto in collaborazione tra il Policlinico San Matteo di Pavia e il Karolinska Institute di Stoccolma: le cellule memoria persistono per almeno 6-8 mesi dall’infezione (Sherina N . et al.). Considerando che la malattia è esplosa poco meno di un anno fa, questo è il tempo massimo di osservazione possibile ad oggi, ma potrebbe essere ben più lungo.

Tutti gli studi finora dimostrano che si produce una risposta immunitaria che dura nel tempo

Probabilità di ricontagio: 1,8%

Vuol dire che chi è guarito dall’infezione non si reinfetta più? No, perché in medicina il 100% non esiste, inoltre in questo caso siamo di fronte a una malattia troppo recente. Ma sappiamo almeno quante sono le probabilità di contagiarsi di nuovo? La risposta arriva dagli esiti preliminari dello studio appena ultimato dal dipartimento di Virologia del Policlinico San Matteo, insieme agli ospedali di Piacenza e Lecco, e che al momento è quello numericamente più corposo. Hanno osservato tutto il loro personale sanitario, verificato quanti operatori si sono ammalati durante la prima ondata e quanti si sono reinfettati nel corso della seconda. Su 9.610 operatori sottoposti al test sierologico a maggio sono risultati positivi in 1.460 (15,2%). Di questo gruppo, da giugno a oggi, si sono ricontagiati in 27 (1,8%), di cui 18 in modo asintomatico. Degli 8.150 risultati invece negativi al test si sono contagiati in 540 (6,6%).

La protezione naturale è più elevata

Le informazioni che ci arrivano da questo studio sono principalmente tre. La prima è che, vista la differenza altamente significativa dal punto di vista statistico nei contagi tra i due gruppi, il rischio di infezione per chi non è entrato in contatto con il Covid è circa del 350% superiore rispetto a chi l’ha già contratto. La seconda dimostra che la falla è scattata durante le vacanze estive, poiché all’interno dello stesso contesto protetto (e dove tutti erano stati sottoposti a controlli), l’infezione si è riscontrata al rientro dalle ferie o in contesti familiari, creando di conseguenza qualche focolaio nell’ospedale. La terza è la più importante: la protezione naturale di un guarito è più elevata di quella garantita dai vaccini che stanno uscendo. La loro efficacia massima dichiarata è intorno al 95%. Tradotto: se mi sono già ammalato ho l’1,8% di probabilità di ricontagiarmi, con il vaccino il 5%. Va detto che nessuna vaccinazione di massa dà una copertura totale, per esempio quella contro il morbillo arriva al 98%, quelle influenzali vanno dal 70 all’80%, proprio a causa delle mutazioni più frequenti.

Vaccinare i guariti per ultimi

Questi studi supportano, dunque, l’ipotesi di vaccinare per ultimi i guariti, che aumentano di giorno in giorno. Nel frattempo chi si è ammalato e poi è guarito può muoversi in una zona rossa senza rischiare una multa, esibendone la certificazione? La domanda non è banale. Al momento non c’è una definizione univoca di «guarito». Il bollettino di oggi, che li calcola in circa 1,3 milioni di persone, include sia chi si è negativizzato, sia chi è stato dimesso dall’ospedale (dunque è clinicamente guarito, ma potrebbe essere per un breve periodo ancora positivo e contagioso). Invece la circolare del ministero della Salute del 12 ottobre aggiorna le indicazioni su durata e termine dell’isolamento che riguarda i casi di infezione documentata. In questo caso «guarito» vuol dire potenzialmente non più contagioso. Per gli asintomatici dopo 10 giorni dalla comparsa della positività; i sintomatici dopo 10 giorni, di cui almeno 3 giorni senza sintomi; per entrambi serve il test negativo. I casi positivi a lungo termine possono invece uscire dopo una settimana senza sintomi (eccezion fatta per gusto e olfatto), ad almeno 21 giorni dalla loro comparsa. In nessuno dei casi la guarigione è equiparata all’immunità.

Al momento non c’è una definizione univoca di guarito

Più libertà per guariti e vaccinati?

Gli studi del Policlinico San Matteo possono essere un passo importante – se confermati anche su un campione di popolazione generale – per considerare la possibilità per i «guariti», e tutti quelli che via via si vaccinano, di andare per esempio all’estero per lavoro senza essere sottoposti poi a quarantena, o di spostarsi da una regione all’altra anche per motivi personali, senza rischiare una multa? Consentirebbe al sistema di iniziare a ripartire, senza attendere la cosiddetta immunità di gregge. La via più semplice potrebbe essere quella di esibire la certificazione del test di positività e negatività o dell’avvenuta vaccinazione. Fermo restando, anche per loro, l’obbligo inderogabile di osservare in pubblico le regole di protezione e distanziamento. Per evitare il caos e perché siamo sempre in terra incognita. Per fare questo ci vuole ovviamente una norma e avrebbe senso cominciare a pensarci subito.

TLB courtesy: 20/05/2020 – Ansa|

Nei prossimi mesi (se non settimane) sappiamo già che ci saranno altre strette

Nei prossimi mesi (se non settimane) sappiamo già che ci saranno altre strette: se si considerassero margini per questa fetta di popolazione, il peso sarebbe almeno in parte attenuato. Sarebbe inoltre uno stimolo per le Regioni a darsi da fare nell’organizzazione efficiente delle vaccinazioni, e un incentivo a prenotarsi per gli scettici. Un tema che ancora nessun Paese sta affrontando; non solo, alcuni nemmeno contano il numero dei «guariti». La Francia su 2,3 milioni di contagiati da febbraio a oggi ne dichiara guariti 180 mila, perché conta solo i dimessi dagli ospedali. La Spagna ha smesso di contarli dal 18 maggio. I numeri della Gran Bretagna non sono disponibili. La Germania li calcola in base a un algoritmo del Koch Institut, che stima «il numero dei casi risolti considerando le informazioni sull’insorgenza della malattia e sulle dimissioni degli ospedali. Il 19 dicembre erano 1,1 milioni.

VACCINO COVID :COME AVVERRA’ LA VACCINAZIONE IN ITALIA

Da Doctor33.it

Gli italiani avranno la possibilità di vaccinarsi contro il coronavirus. E la priorità sarà data agli operatori sanitari, ai dipendenti degli ospedali e agli anziani ospiti delle case di riposo. Tanto si evince dalla comunicazione del Commissario all’Emergenza Covid Domenico Arcuri inviata alle regioni il 17 novembre scorso. Nella nota si chiede alle giunte una “Raccolta di informazioni per il piano di fattibilità della prima fase di somministrazione del vaccino Covid-19”. Nell’ambito dell’Advanced Purchase Agreement, iniziativa dell’Unione europea per l’acquisto del più ampio portafoglio possibile di vaccini, Pfizer Biontech arriverebbe prima, a fine gennaio, quando – afferma il documento commissariale – è prevista la consegna dei primi 3,4 milioni di dosi destinate a 1,7 milioni di italiani, da inoculare in due fasi: prima somministrazione e richiamo.

Pfizer, che ha appena annunciato la conclusione della fase 3 di sperimentazione con efficacia al 94% (crescita di anticorpi specie negli anziani over 65), fornirà il vaccino direttamente al punto di somministrazione in borse di conservazione contenenti massimo 5 scatole da 195 fiale (975 dosi a scatola). Per 15 giorni dalla consegna le scatole possono restare nelle borse di conservazione del fornitore; nelle celle frigorifere a una media di -75°C possono essere tenute 6 mesi. Le regioni sono chiamate da Arcuri ad individuare le strutture individuate come punti di consegna e capaci di conservare i vaccini alle condizioni sopra citate. Si tratta di ospedali che dovranno essere in grado di vaccinare minimo 2 mila persone in 15 giorni e fare da “hub” per la consegna di vaccini alle Rsa e ad altri centri vaccinali. Ogni ospedale-punto di consegna dovrà indicare il numero del personale complessivo operante, quello del personale sanitario e sociosanitario in grado di raggiungere la struttura in massimo un’ora, dei congelatori idonei di cui dispone e dei volumi complessivi da essi offerti. Le residenze per anziani dovranno indicare il numero di personale e di ospiti e dovranno poter essere raggiungibili entro un’ora da ospedali che abbiano in dotazione il vaccino. Quest’ultimo andrà usato al massimo entro 6 ore dall’estrazione dalle borse o dalla cella di conservazione. In una fase successiva si passerà a somministrare i vaccini ai cittadini a partire dai fragili, quindi dagli anziani.
Va detto che ancora né Ema in Europa né Fda negli Stati Uniti hanno approvato in commercio i vaccini, ed è normale perché tutti e tre i prodotti nel mirino dell’Ue – ci sono pure i vaccini di Janssen-Moderna e di Oxford-Irbm-AstraZeneca – stanno per ultimare le fasi di sperimentazione. Peraltro, il primo lotto del vaccino Pfizer si troverà davanti popolazioni strategiche da vaccinare e per questo ne è prevista la distribuzione tramite hub ospedalieri, cosa che non dovrebbe avvenire per i lotti successivi che dovrebbero essere somministrati con i canali tradizionali (inclusi i drive-through).


Difficilmente il vaccino sarà obbligatorio, il Tar Lazio ha da poco bocciato la disposizione della Regione che imponeva l’antinfluenzale. Se l’immunizzazione funziona, sarà però vantaggioso sia nel tornare al lavoro in presenza sia nei contatti tra pazienti e ambulatori, specie ospedalieri, tanto più se i mancati vaccini rendessero vana la possibilità di liberarsi del virus.

I VACCINI SARS2-COV PRONTI AL VIA

Ormai stiamo entrando in una fase dove parlare di vaccinazione di covid non é più solo una speranza lontana. In queste prossime settimane le informazioni relative ai nuovi vaccini ed alle problematiche correlate alla somministrazione di ognuno di essi occuperà a cadenza regolare giornali e media. Dobbiamo abituarci.  Molti vaccini  sono già in fase avanzata di sperimentazione, quindi nella fase 3, altri sono in fase più sperimentale.

Ecco i vaccini ormai pronti al via:
Il virus inattivato scelto da Sinovac (Cina), la via dell’RNA da Pfizer e Moderna (Usa), gli adenovirus che trasportano antigeni da AstraZeneca (Uk), Sputnik (Russia), Cansino (Cina), Johnson & Johnson (Usa), la proteina Spike da Novavax (Usa) e Sanofi (Francia). Speriamo di essere giunti ad un nuovo inizio per tutti noi. Intanto é già pronto un piano vaccini.

Tra le priorità del governo c’è quella di “somministrare il vaccino anti-Covid direttamente nelle strutture ospedaliere e, tramite unità mobili, nei presidi residenziali per anziani”. E’ quanto si legge nel Piano per i vaccini contro il coronavirus che il commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri, ha inviato ai presidenti delle Regioni e ai ministri della Salute e degli Affari Regionali. La somministrazione su larga scala avverrà attraverso i drive-in.

Nel rincorrersi delle notizie, che provoca non pochi su e giù alle quotazioni dei titoli in borsa, è facile dar ascolto più a slogan e ad altisonanti annunci mediatici che alle questioni davvero rilevanti per il futuro della pandemia. Ecco allora alcuni punti di attenzione, per evidenziare analogie e differenze tra quelli che al momento sembrano i primi vaccini pronti ad arrivare sul mercato: Bnt162b (Pfizer-Biontech) e mRna1273 (Moderna).

Il meccanismo di funzionamento a mRna

Le due soluzioni vaccinali funzionano di fatto allo stesso modo. Il vaccino contiene le informazioni genetiche (sotto forma di rna messaggero) affinché i ribosomi delle nostre cellule possano produrre la proteina spike del coronavirus Sars-Cov-2. Questa proteina – che coincide con quella attraverso cui il virus si aggancia alle cellule bersaglio – una volta in circolo stimola una risposta immunitaria, portando il corpo a generare anticorpi neutralizzanti e cellule T, proprio come se fossimo stati attaccati dal vero virus.

Questo meccanismo è diverso rispetto ai vaccini più tradizionali, in cui la proteina spike viene iniettata direttamente, ed è una grossa novità dal punto di vista dell’approccio all’immunizzazione che accomuna le due formulazioni. Entrambe, peraltro, richiedono una doppia iniezione, a qualche settimana di distanza: 21 giorni per Pfizer e 28 per Moderna.

L’annuncio (solo) mediatico

Si tratta di un altro punto decisivo, valido per tutte e due. A oggi non abbiamo a disposizione alcuno studio scientifico sulla fase 3 (ossia quella finale) della sperimentazione, ma solo una comunicazione ai media basata “sull’analisi dei dati preliminari. Anche se non c’è motivo di credere che le informazioni siano false, è importante distinguere la fase mediatica dell’annuncio da quella scientifica, che passa per il vaglio della comunità degli scienziati, per la peer review e per rigorose valutazioni sulla validità degli studi e dei risultati.

Si ritiene comunque probabile che i paper scientifici arrivino a breve, entro qualche settimana. E in questo contesto i pochi giorni di distanza tra i due annunci mediatici (fatti sempre di lunedì, peraltro) potrebbero non essere affatto indicativi di chi completerà l’iter per primo.

Quasi un 5% di scarto

Sembra quasi una gara al rialzo. La settimana scorsa Pfizer-Biontech aveva annunciato un’efficacia del proprio vaccino nel prevenire il Covid-19 poco superiore al 90%. Poi è arrivata la Russia sbandierando un 92%. E infine Moderna ha dichiarato un’efficacia del 94,5%.

Questi numeri meritano due considerazioni. Anzitutto, sono tutti molto più grandi di quanto si sperasse. Già un’efficacia al 50% sarebbe stata ritenuta un buon risultato, ed essere nell’ordine del 90%-95% significherebbe un traguardo eccezionale. Non è chiaro, però, quanto queste percentuali siano destinate a essere confermate, sporattutto se si guarda alla cifra delle unità. Trattandosi di numeri sperimentali ancora relativamente piccoli, in cui un solo caso di differenza sposterebbe i valori in modo significativo, non è difficile credere che la valutazione di efficacia possa variare come minimo di qualche percento, e inoltre bisognerà valutare eventuali oscillazioni in funzione della fascia d’età. Dunque la differenza di efficacia del 5% per ora non è significativa né indicativa.

94/164 e 95/151

Affinché la sperimentazione di fase 3 possa dirsi conclusa, occorre raggiungere una prestabilita soglia nel numero di persone che hanno contratto il Covid-19 tra i partecipanti allo studio (nel gruppo dei vaccinati o in quello di controllo, a cui è stato somministrato un placebo). Per il vaccino Pfizer-Biontech si è parlato di 94 casi su un totale di 164 da raggiungere, mentre Moderna per la propria sperimentazione ne ha annunciati 95 (di cui 90 nel gruppo di controllo), ma con una soglia fissata a 151. La differenza nel traguardo dipende dal numero di partecipanti coinvolti, che sono 43mila nel primo studio e 30mila nel secondo.

Covid vaccino Teco milano

In entrambi i casi le proiezioni lasciano immaginare che serva ancora qualche settimana per arrivare alla conclusione dell’indagine, ma è impossibile al momento essere più precisi. Curiosamente, peraltro, le due sperimentazioni sono iniziate nello stesso giorno, il 27 luglio scorso.

Temperatura e tempi di conservazione

Come abbiamo già raccontato in altre occasioni, le modalità di conservazione del vaccino sono decisive per la gestione logistica delle dosi, e possono fare la differenza tra l’una e l’altra formulazione. Da quanto sappiamo al momento, il vaccino Pfizer-Biontech ha bisogno di temperature basse e dell’ordine dei -75°C (o comunque tra i -70°C e i -80°C). Solo negli ultimi giorni prima dell’iniezione può essere portato in un normale frigorifero: a una temperatura di 4°C, infatti, può resistere per 5 giorni.

La formulazione di Moderna, invece, può essere conservata ad appena -20°C (dunque parrebbe avere un importante vantaggio competitivo) per un massimo di 6 mesi di stoccaggio. Poi deve restare conservata tra i 2°C e gli 8°C fino a un massimo di 30 giorni (non più un massimo di 7 giorni, come si stimava), e a temperatura ambiente per una ulteriore mezza giornata. Si tratta di informazioni non ancora definitive e certificate, ma la differenza tra i -75°C e i -20°C potrebbe rivelarsi un punto fondamentale.

Quando saranno disponibili?

Per il vaccino di Moderna, se tutto filerà liscio, si prevede che l’uscita dal territorio statunitense delle prime dosi non accadrà nel 2020, mentre nel Nord America già entro dicembre saranno sfornati i primi 20 milioni di dosi. Al momento non ci sono date certe, ma c’è la promessa di arrivare entro fine 2021 a produrre tra 500 milioni e 1 miliardo di dosi. Leggermente diversi, ma non così lontani, i numeri di Pfizer-Biontech: 1,3 miliardi di dosi prodotte entro il prossimo anno, ma già i primi 50 milioni entro questo dicembre.

In entrambi i casi, e come peraltro già sta accadendo anche per altri candidati, la sperimentazione procede di pari passo con la produzione, in modo da mettersi avanti con i lavori per il momento dell’eventuale (e sperata) approvazione.

Capacità eradicante e sicurezza a confronto

Su questi due aspetti c’è ancora molta incertezza per entrambe le formulazioni. Sulla sicurezza al momento non sono state segnalate particolari criticità, a parte qualche effetto collaterale come stanchezza, dolori, eritema nell’area dell’iniezione, mal di testa e altri sintomi minori.

Restano invece aperte due importanti partite, probabilmente decisive per il prosieguo dell’emergenza sanitaria. Non è ancora chiaro, infatti, se i vaccini proteggano solo dallo sviluppo della malattia Covid-19 vera e propria o se tengano del tutto il virus fuori dal corpo. In quest’ultimo caso potrebbero scongiurare la trasmissione del virus da persona a persona e quindi portare più facilmente verso la fine della pandemia, mentre nel caso si possa comunque essere contagiosi la situazione sarebbe meno rosea. L’altro elemento è relativo alla durata della protezione: fa molta differenza, infatti, se gli anticorpi sviluppati sono permanenti, di lunga durata oppure destinati a scomparire nel giro di pochi mesi.

Un po’ di geopolitica vaccinale

Interessante che le prime due grandi aziende ad annunciare il vaccino siano entrambe statunitensi. Moderna è in un certo senso la più statunitense di tutte, perché non collabora con un’azienda europea come fa Pfizer coordinandosi con Biontech. Ma soprattutto è interessante notare che non si tratta di successi da attribuire solo al settore privato. Entrambe le imprese, infatti, fanno parte dell’operazione nordamericana Warp Speed, e per esempio Moderna ha ricevuto 2,4 miliardi di finanziamento del governo statunitense e ha condiviso la fase di sviluppo con il National Institutes of Health. La sola Biontech, poi, ha ricevuto 375 milioni di euro di finanziamento dal ministero tedesco per la ricerca.

Dal punto di vista del prezzo finale, il vaccino Moderna dovrebbe costare intorno ai 25 euro, comprensivi di un margine di profitto. Pfizer-Biontech, invece, dovrebbe assestarsi appena sotto i 20 dollari, e al momento si parla di 19,50. Sia Pfizer sia Moderna chiederanno l’approvazione per l’uso in emergenza alla Food and Drug Administration statunitense, e si avvarranno della rolling review per accorciare i tempi dell’approvazione all’Agenzia europea del farmaco.

Ma dove sono tutti gli altri?

Al di là del già citato vaccino russo, per il quale le informazioni sono frammentarie e confuse, per gli altri vaccini in fase 3 di sperimentazione la situazione potrebbe non essere così diversa dai due più chiacchierati. In diversi casi, non ultimo quello AstraZeneca/Oxford, ci si aspetta la conclusione della sperimentazione nel giro di poche settimane, dunque l’effettiva autorizzazione e immissione in commercio potrebbe non essere molto distante nel tempo rispetto a Moderna e Pfizer-Biontech.

L’annuncio mediatico ha in qualche modo rotto gli indugi e creato grande scompiglio, ma sarebbe sbagliato cantare vittoria prima di essere davvero arrivati al traguardo. Le alternative in fase avanzata di studio, peraltro, includono tecniche vaccinali più tradizionali come quella proteica, che potrebbero rappresentare un’alternativa complementare rispetto alle soluzioni a mRna, e magari più semplice da gestire dal punto di vista logistico. Tra i vaccini potenzialmente in arrivo a breve ci sono per esempio quelli di AstraZeneca/Oxford, Sinovac, Janssen, Cansino, Butantan, Novavax ed Elea Phoenix. Ed è ancora presto però per tirare conclusioni, fino a che non si avranno sotto mano le pubblicazioni scientifiche con tutti i dettagli

 

AIFA : vaccinazione ai primi di ottobre

Vaccini antinfluenzali. Ecco quelli indicati per la stagione 2020-2021.

La composizione di tutti i vaccini influenzali per la stagione 2020-2021 segue le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e del Comitato per i Medicinali per Uso umano (CHMP) dell’EMA. Vista l’attuale situazione epidemiologica relativa alla circolazione di SARS-CoV-2, Aifa raccomanda di anticipare la conduzione delle campagne di vaccinazione antinfluenzale a partire dall’inizio di ottobre e offrire la vaccinazione ai soggetti eleggibili in qualsiasi momento della stagione influenzale, anche se si presentano in ritardo per la vaccinazione. LA DETERMINA AIFA

Vaccino coronavirus, chi potrà averlo in Italia e quando? - Corriere.it

04 SET – È stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Determina dell’AIFA che autorizza l’aggiornamento, per la stagione 2020-2021, della composizione dei vaccini influenzali autorizzati secondo procedura registrativa nazionale, di mutuo riconoscimento e decentrata (Determinazione AAM/PPA N° 478/2020).

Sono inoltre autorizzati i vaccini influenzali approvati secondo la procedura registrativa centralizzata coordinata dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA).

La composizione di tutti i vaccini influenzali per la stagione 2020-2021 segue le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e del Comitato per i Medicinali per Uso umano (CHMP) dell’EMA.

L’AIFA, in accordo alla Circolare del Ministero della Salute del 5 giugno 2020 (“Prevenzione e controllo dell’influenza: raccomandazioni per la stagione 2020-2021”), ricorda che, per la nostra situazione climatica e per l’andamento temporale mostrato dalle epidemie influenzali in Italia, il periodo destinato alla conduzione delle campagne di vaccinazione antinfluenzale è quello autunnale, generalmente a partire dalla metà di ottobre fino a fine dicembre.
Vista l’attuale situazione epidemiologica relativa alla circolazione di SARS-CoV-2, si raccomanda di anticipare la conduzione delle campagne di vaccinazione antinfluenzale a partire dall’inizio di ottobre e offrire la vaccinazione ai soggetti eleggibili in qualsiasi momento della stagione influenzale, anche se si presentano in ritardo per la vaccinazione.

Sperimentazioni cliniche: da AIFA nuove linee di indirizzo per i consensi informati | AICE online

La protezione indotta dal vaccino comincia circa due settimane dopo la vaccinazione e perdura per un periodo di sei/otto mesi per poi decrescere. Per tale motivo, poiché i ceppi virali in circolazione possono mutare, è necessario sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale all’inizio di ogni nuova stagione influenzale.

L’AIFA ricorda che, oltre alle misure di protezione e cura basate su vaccinazioni e all’eventuale uso di farmaci antivirali, una misura importante nel limitare la diffusione dell’influenza è rappresentata da una buona igiene delle mani e delle secrezioni respiratorie (ad esempio lavare regolarmente e frequentemente le mani con acqua e sapone; coprire la bocca e il naso con un fazzoletto quando si tossisce e starnutisce e poi gettarlo nella spazzatura; aerare regolarmente le stanze in cui si soggiorna).

L’AIFA invita a segnalare le sospette reazioni avverse che si verificassero dopo la somministrazione di un vaccino, in quanto le segnalazioni contribuiscono al monitoraggio continuo del rapporto beneficio/rischio dei vaccini come di ogni altro medicinale.

da http://www.quotidianosanita.it/

Vaccino anti-influenzale, corsa delle Regioni ma le dosi non bastano

L’anno passato sono stati iniettati 10 milioni di dosi, quest’anno i governatori ne hanno acquistati ben 14 milioni ma non sono sufficienti. L’allarme delle farmacie: non riusciamo ad approvvigionarci, così la fascia di popolazione attiva non potrà vaccinarsi

Vaccino anti influenzale per molti ma non per tutti. Da cenerentola snobbata dal pubblico a superstar da razionare con cura. Il Covid per cui il mondo attende un vaccino sta avendo un effetto quasi paradossale in Italia: mandare a ruba le dosi di un altro vaccino – quello per l’influenza di stagione – che le Regioni hanno appena acquistato per far fronte a un più che probabile boom di richieste del pubblico.

Boom in arrivo

L’anno passato sono stati iniettati 10 milioni di dosi, quest’anno i governatori ne hanno acquistati ben 14 milioni. Finora si vaccinava un anziano su due e appena il 16,7% della popolazione generale. Quest’anno, complice il Covid, la musica cambierà. A fornire il dato è stato il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi: le richieste delle Regioni ai produttori totalizzano +40% rispetto alla stagione 2019-2020. “A questa domanda aumentata, registrata in base alle gare fatte, le aziende hanno risposto – ha detto Scaccabarozzi – e cercheranno di fare il possibile per soddisfare tutte le richieste. Siamo di fronte a una crescita importante, che credo sia dovuta al fatto che l’epidemia di coronavirus ha messo in allerta molti”. A cominciare dal ministero della Salute: spiega la doppia utilità della profilassi anti influenza il direttore della Prevenzione Gianni Rezza: “Da un lato ci aspettiamo un minor carico di diagnosi differenziale pur se va tenuto presente che nei bambini, ad esempio, sono tanti i virus che possono dare sindromi respiratorie; dall’altro un alleggerimento per i Pronto soccorso, sempre intasati durante il picco influenzale”.

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Regioni sollecitate dal ministero della Salute a giugno

Sollecitati dalla circolare del ministero che il 5 giugno scorso ricordava l’importanza di una copertura per l’influenza stagionale sia per soggetti fragili e anziani – per cui si è anticipata l’età dell’offerta gratuita da 65 a 60 anni – sia per i bambini tra i 6 mesi e i 6 anni e in generale per l’intera popolazione, i governatori hanno bandito le gare per tempo e aspettano l’arrivo dei lotti. Il rischio carenze. Ma anche le dosi acquistate in più forse non basteranno.

Da qui la raccomandazione del Nitag (National Immunization Technical Advisory Group), il gruppo di esperti indipendenti sui vaccini, affinché ogni Regione valuti attentamente l’ampliamento dell’offerta e in ogni caso predisponga un piano delle priorità che metta al primo posto le persone più a rischio e gli operatori sanitari. “C’è un problema di organizzazione degli spazi e di personale, perché il Covid ha messo in crisi servizi già oberati – spiega il coordinatore Nitag Vittorio De Micheli – ed è probabile che la tanto auspicata partenza in anticipo delle vaccinazioni non si possa fare. In ogni caso, con l’estensione della gratuità a partire dai 60 anni, dosi per tutti non ce ne saranno”.

Ma l’esperto ha dubbi anche sull’utilità stessa di una copertura molto estesa, in funzione anti-Covid: “I virus simil influenzali sono centinaia, pensare che il vaccino, che pure va fatto alle persone fragili, aiuti la diagnosi differenziale è un’astrazione. Piuttosto, ho molta più fiducia nell’utilità degli strumenti che usiamo contro il coronavirus: lavaggio delle mani, mascherine e distanziamento”.

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Regioni alla prova

Dalla Lombardia che ha già acquistato 2,4 milioni di dosi al Lazio che quest’anno punta al raddoppio sempre con 2,4 milioni, dalla Puglia balzata da 600mila a 2 milioni di fiale fino al Piemonte che si è aggiudicato il 30% in più per un totale di 1,1 milioni di dosi acquistate con gara unica. Le Regioni hanno potenziato gli approvvigionamenti ma devono comunque fronteggiare la sfida organizzativa in un autunno che già si profila molto difficile.

La scommessa è utilizzare spazi – anche oratori o palazzetti sportivi – e canali distributivi mai battuti, e altri operatori oltre ai medici di medicina generale e agli ambulatori delle Asl.Le farmacie si candidano. In prima linea tra i candidati non solo alla distribuzione ma anche alla somministrazione ci sono le farmacie (già impiegate in Piemonte), che l’anno passato hanno dispensato circa 800mila dosi e che quest’anno stimano un incremento del 50% fino a oltre 1,2 milioni. “Farmacie e grossisti – spiega il segretario nazionale di Federfarma Roberto Tobia – non riescono ad approvvigionarsi dalle case farmaceutiche delle necessarie dosi di vaccino antinfluenzale da destinare a quella fascia attiva della popolazione che è l’asse portante dell’economia del Paese, ma che in questo momento è quella più a rischio di contagio”. E allora? Ministero, industrie, addetti ai lavori e presìdi territoriali sono in cerca di una soluzione, perché il tempo stringe.

da www.ilsole24ore.com