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CASSA INTEGRAZIONE PER IL CALDO!

da open.online

Se il termometro segna 35 gradi (effettivi o percepiti) si può andare in cassa integrazioneInps e Inail hanno pubblicato le linee guida per prevenire le «patologie da stress termico». E hanno diffuso un decalogo destinato a imprese e lavoratori su come difendersi dai fenomeni climatici estremi. «Le imprese — si legge nella nota dei due enti — potranno chiedere all’Inps il riconoscimento della Cassa Integrazione quando il termometro supera i 35 gradi. Ai fini dell’integrazione salariale, però, possono essere considerate idonee anche le temperature “percepite”». Una decisione che arriva dopo la morte di Luca Cappelli, operaio alla Dana Graziano di Rivoli, proprio a causa del caldo. Tra i mestieri a rischio l’Inps indica: i lavori di stesura del manto stradale, quelli di rifacimento di facciate e tetti di costruzioni, le lavorazioni all’aperto con indumenti di protezione.

Chiusi per caldo

Non solo. Nel computo rientrano anche tutte le fasi lavorative «che, in generale, avvengono in luoghi non proteggibili dal sole o che comportino l’utilizzo di materiali o lo svolgimento di lavorazioni che non sopportano il forte calore». L’Inail spiega che tra le patologie per il caldo ci sono i crampi, la dermatite da sudore, gli squilibri idrominerali. Fino al colpo di calore, che può comportare aritmie cardiache e l’innalzamento della temperatura corporea oltre i 40°. Per quanto riguarda le prestazioni Cigo (ovvero: di Cassa Integrazione Ordinaria) erogate, fanno sapere dalla stessa Inps, nella richiesta va indicata la causale “eventi meteo”. Anche in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa delle temperature elevate. In merito alle temperature “percepite”, queste sono più elevate rispetto a quelle reali, tenuto conto della particolare tipologia di lavorazione in atto.

L’Inps spiega anche che l’azienda, nella domanda di Cigo e nella relazione tecnica, deve semplicemente indicare le giornate di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. Poi deve specificare il tipo di lavorazione in atto nelle giornate medesime. Mentre non è tenuta a produrre dichiarazioni che attestino l’entità della temperatura, né a produrre i bollettini meteo. Inoltre, indipendentemente dalle temperature rilevate nei bollettini, l’Inps riconosce la cassa integrazione ordinaria in tutti i casi in cui il responsabile della sicurezza dell’azienda dispone la sospensione delle lavorazioni in quanto ritiene sussistano rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi i casi in cui le sospensioni siano dovute a temperature eccessive.

Il progetto Worklimate

L’Inail ha invece allestito due piattaforme web per contrastare lo stress da calore nell’ambito del progetto Worklimate. Suggerisce di bere un bicchiere d’acqua fresca ogni 15 minuti, vestirsi in maniera adeguata (con capi leggeri) e di evitare di lavorare a pelle nuda. Ai datori di lavoro l’ente chiede invece di riorganizzare i turni e di rendere disponibili ai lavoratori i distributori di acqua fresca e aree in ombra per le pause. Soprattutto, spiega La Stampa, l’Inail consiglia di promuovere forme di reciproco controllo dei lavoratori. Come? Utilizzando il cosiddetto «sistema del compagno» che può prestare i primi soccorsi e chiamare i medici in caso di segnali di stress da calore.

IL RISCHIO ESPLOSIVO IN GALVANICA

Nel settore trattamenti la frequenza del rischio di esplosione è fortunatamente bassa. Quello che preoccupa, però, è la magnitudo del rischio, ed è per questo che è doveroso affrontare il problema.

Nelle nostre galvaniche prevalentemente zincature, nichelature e cromature non ci dovrebbero essere grossi problemi di rischio da esplosione. In effetti nella mia frequentazione oramai sessantennale delle officine galvaniche gli unici botti frequenti che ricordo e che mi impressionavano da bambino erano quelli provocati ad arte dall’operatore galvanico per “schiumare” la sgrassatura.

Il rischio di esplosione da polveri

Non mi permetto valutazioni sul settore dell’alluminio, la sola presenza di tale materiale e quindi la possibilità che sia presente in polvere (con alta facilità di incendio ed esplosione) imporrà certo cautele specifiche. Nel mio corso “approccio globale alla valutazione del rischio” mi permetto di citare il fatto che nell’area Verbania-Cusio-Ossola, dove si producevano circa 60.000 caffettiere di alluminio al giorno ed una conseguente produzione stimata giornaliera di 540 Kg di polveri d’alluminio, si sono verificati nel periodo 1990-2001 sei incidenti esplosivi con 2 morti e 16 feriti. Al riguardo rimando gli interessati al non recente, ma ancora ben utile, opuscolo edito nel maggio 2001 sotto l’egida della Regione Piemonte: “Esplosioni da polveri nei processi di finitura di manufatti in alluminio e leghe nella realtà produttiva ASL 14 VCO: analisi del rischio e misure di prevenzione”, pubblicazione a cura del dipartimento Prevenzione dello Spresal e di CNR FIRGET. Nel suo prologo il Dott. Mario Valpreda diceva: “Le polveri di alluminio che si liberano durante le operazioni di pulitura dei metalli possono causare esplosioni. Sembra un’evenienza rara, ma l’esperienza dimostra che l’area del rischio è ampia”.

L’area dei trattamenti superficiali e molto ampia, non si smette mai di imparare cose nuove in questo settore fatto sì di terzisti “generalisti” ma anche di tante nicchie ultraspecializzate. È impossibile quindi conoscere tutto quello che avviene in queste molteplici e spesso piccole o addirittura microaziende. Quello che mi preme qui ricordare è che le polveri in generale possono comportare il rischio di esplosione e per sottolineare quanto questo sia vero cito tra i casi casi un’altra storica esplosione descritta dal perito incaricato dalla Reale Accademia delle Scienze di Torino nel 1785, il conte Carlo Ludovico Morozzo di Bianzè, esplosione avvenuta in un modesto panificio!

Il primo assunto, quindi, è che qualsiasi materiale solido in forma pulverulenta che sia in grado di bruciare in aria può causare un’esplosione di intensità tanto più violenta quanto più sottile sia la sua granulometria.

Il secondo assunto da tener ben presente è quello che ci dice come le polveri combustibili depositatesi in strati possono causare un incendio che può degenerare in esplosione quando lo strato si disperde in aria creando una nube.

Le polveri possono così dar luogo a 2 fenomeni:
– esplosione primaria;
– esplosioni secondarie: le polveri sollevatesi dall’esplosione primaria causano a loro
volta una reazione esplosiva

Ne consegue che ognuno nella sua officina deve valutare il pericolo di accumulo e stratificazione di polveri e provvedere con mezzi idonei alla loro rimozione in sicurezza. Se poi le polveri sono destinate ad impianti di captazione è bene che questi incorporino le dotazioni necessarie a evitare detonazioni o deflagrazioni che debbono essere certificate e munite dell’apposito marchio europeo.

Il rischio da esplosioni “chimiche”

Riprendendo quanto detto a proposito delle nostre galvaniche, in generale non dovrebbero essere presenti sostanze che espongono al rischio di formazione di miscele esplosive. Il galvanico è l’ultimo della sua filiera, spesso si trova ad affrontare i problemi causati da tutti coloro che l’hanno preceduto nella manifattura dell’oggetto che lui è chiamato a rifinire per renderlo vendibile. Se è stato usato un olio o della pasta abrasiva di scarsa qualità, se il saldatore ha spruzzato un prodotto che vetrifica o se la saldatura è stata eseguita in modo particolarmente creativo, se il materiale è sbagliato… il galvanico si ritrova la patata bollente tra le mani. Non di rado capita che il suo consulente chimico suggerisca di risolvere il problema introducendo qualche acido particolarmente forte o qualche nuovo “prodottino”.

Normalmente ciò avviene per quantità modeste ma abbiamo visto cosa succede al nostro Bobby con soli 130 galloni, anche andassimo a 13, in scala 10 a 1, non si dovrebbe comunque scherzare. Quindi fare particolare attenzione alle nuove sostanze introdotte anche solo sperimentalmente, analizzare bene la scheda di sicurezza, verificarne la volatilità e considerare la presenza di sostanze che ora andiamo ad elencare. In particolare, evitare di formare miscele contenenti NH3, O2 e NOx che possono dar luogo a formazione di nitrato d’ammonio che è esplosivo.

Anche i perossidi possono reagire violentemente, vi è un caso segnalato nel registro europeo degli incidenti rilevanti e-MARS accaduto nel reparto depurazioni di una galvanica, in questo caso la reazione non ha dato luogo ad una esplosione ma poco ci mancava. La stabilità termodinamica delle sostanze dipende dalla loro composizione e, più precisamente, dalla presenza nella loro molecola di taluni “gruppi funzionali”. Le “sostanze termodinamicamente instabili” sono ben descritte nell’apposito quaderno reperibile sul sito dell’Inail e sono:

derivati dell’acetilene
– azo-composti
– perossidi
– ozonuri
– triazeni
– epossidi
– nitroalcani
– nitroso composti
– nitrati di composti ossidrilici (per esempio TNT)
– fulminati
– nitriti organici
– sali di idrossilammonio
– perclorati organici
– cloriti, clorati

La reazione chimica tra acido fluoborico (o altri acidi forti) e metalli comporta la formazione di idrogeno gassoso che è infiammabile ed esplosivo. Nell’e-MARS abbiamo un caso in galvanica di violenta reazione con sviluppo di gas tra acido nitrico e ferro. In tal senso l’acido nitrico è una brutta bestia con molti metalli (zinco, ferro, rame, magnesio) tranne l’alluminio. Anche per questa segnalazione non vi è stata fortunatamente esplosione, ma molti operai sono stati messi sotto osservazione dopo essere stati esposti alle esalazioni. L’acido nitrico è anche in grado di reagire violentemente con sostanze chimiche organiche causando pericolo di incendi e esplosioni.

Ricordiamo poi la regola fondamentale ”mai dare da bere agli acidi” l’aggiunta di acqua può accelerare reazioni ad esempio tra acido solforico concentrato con ferro, alluminio e magnesio.

Per lo zinco in polvere la reazione è diretta. Oltre alla sostanza anche la forma è importante: se aumenta la superficie di scambio (polveri metalliche invece di metallo massivo) anche la reazione sarà più violenta. La stessa reazione accade fra basi forti (sodio idrossido o idrossido di ammonio) e metalli.

Il rischio da esplosioni “fisiche”

Le esplosioni fisiche si verificano quando quantità rilevanti di liquido vaporizzano istantaneamente per ebollizione, con un grande aumento di volume.

Ricordiamo il fenomeno dei BLEVE, Boiling Liquid Expanding Vapour Explosion. Esempi significativi di BLEVE si possono avere a seguito della brusca rottura di recipienti contenenti, per esempio, GPL, metano, etilene, propano, ammoniaca, cloro, anidride solforosa mantenuti liquefatti sotto pressione, oppure liquefatti e mantenuti a pressione atmosferica a bassa temperatura, per esempio ossigeno o azoto liquido. La rottura di bombole può causare una esplosione fisica, con proiezione a distanza di frammenti.

Da evitarsi il versamento in acqua di metallo fuso come alluminio o ferro. Il vapore si sviluppa con grande rapidità, proiettando liquido e generando onde d’urto, pericolose anche a notevole distanza. Anche qui si può approfondire consultando l’allegato presente nello stesso sito dell’Inail dove potete vedere citati anche altri fenomeni quali il “Boil Over” e la “decomposizione esplosiva” di determinati materiali.

La zona di ricarica delle batterie

Vale la pena ricordare una delle zone a rischio di esplosione che è presente abbastanza ubiquitariamente nei diversi settori produttivi: la zona di ricarica delle batterie dei carrelli elevatori, dei semoventi elettrici e/o di accumulatori. Credo che anche questo fenomeno esplosivo non sia poi così frequente visto che le moderne apparecchiature di ricarica dovrebbero essere munite di dispositivi di sicurezza che “staccano” al raggiungimento della carica ottimale. In effetti l’elettrolisi dell’acqua della batteria porta ad emissioni di idrogeno, se questo raggiunge la percentuale del 4 % si ottiene una atmosfera potenzialmente esplosiva. La massima emissione di idrogeno avviene quando la batteria è completamente carica, in questa situazione l’energia che forniamo viene tutta utilizzata in elettrolisi. Quindi evitare di porre sotto carica quando non c’è la necessità è un primo ovvio consiglio. Assicurarsi che il caricabatterie interrompa l’alimentazione al raggiungimento dell’obbiettivo è altrettanto ovvio. Quello che si deve attuare in prevenzione è posizionare tale zona in una parte coperta ma ben ventilata evitando così l’accumulo di gas che porti alla formazione di una atmosfera esplosiva. Una buona ventilazione naturale assicurerà una grande riduzione del rischio. Se ciò non fosse possibile si dovrà intervenire con un buon sistema di ventilazione forzata nell’area.

articolo originale

di Lorenzo Dalla Torre tratto da meccanicanews.com

COVID PROTOCOLLO DEL 30 GIUGNO E NOTA DI CONFINDUSTRIA.

Il 30 giugno 2022 è stato aggiornato il protocollo di intesa fra il Ministero del lavoro, il Ministero della salute e le parti sociali per la prevenzione della diffusione del COVID-19 nei luoghi di lavoro. Dopo un serrato confronto è arrivato l’ok al protocollo del 30 giugno  che aggiorna le misure per il contrasto al Covid negli ambienti di lavoro privati. 

Le disposizioni rappresentano linee guida condivise tra le parti sociali per agevolare le imprese nella successiva adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio aziendali. Il documento tiene conto delle misure di contrasto e di contenimento della diffusione del SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro, già previste dai Protocolli condivisi sottoscritti dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, in particolare il 14 marzo, il 24 aprile 2020, il 6 aprile 2021, sviluppati anche con il contributo tecnico-scientifico dell’INAIL . L’attuale Protocollo è più snello e contiene una serie di misure di prevenzione che tengono conto dell’evoluzione della situazione pandemica: è una semplificazione importante del quadro di regole ma non è un liberi tutti, visti anche gli esiti del costante monitoraggio sulla circolazione di varianti di virus SARS-CoV-2 ad alta trasmissibilità delle ultime settimane che sottolinea l’importanza di continuare a garantire condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti a specifica tutela dei lavoratori stessi. 

Le misure prevenzionali nel complesso riguardano le informazioni, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, a tutti i lavoratori e a chiunque entri nel luogo di lavoro del rischio di contagio da Covid-19, le modalità di ingresso nei luoghi di lavoro, la gestione degli appalti, la pulizia e la sanificazione dei locali e il ricambio dell’aria, le precauzioni igieniche personali, i dispositivi di protezione delle vie respiratorie, la gestione degli spazi comuni, la gestione dell’entrata e uscita dei dipendenti, la gestione di una persona sintomatica in azienda, la sorveglianza sanitaria, il lavoro agile, la protezione rafforzata dei lavoratori fragili. Tra le principali novità è previsto : 

  1. Le mascherine ffp2 restano un presidio importante per evitare i contagi da covid-19. Sono raccomandate ( ma non obbligatorie ) in ambienti chiusi e condivisi da più lavoratori o aperti al pubblico o dove comunque non sia possibile il distanziamento interpersonale di un metro. Il datore di lavoro assicura la disponibilità di FFP2 al fine di consentirne a tutti i lavoratori l’utilizzo ;
  2. Il datore di lavoro, su specifica indicazione del medico competente o del RSPP, può porre l’obbligo di indossare la mascherina ffp2 a particolari gruppi di lavoratori individuati sulla base di specifiche mansioni e/o condizioni di lavoro sopra richiamate , con particolare attenzione ai soggetti fragili ;
  3. Un ruolo centrale è attribuito ai comitati aziendali per l’applicazione e la verifica delle regole di prevenzione.

Le Parti si sono impegnate a incontrarsi ove si registrino mutamenti dell’attuale quadro epidemiologico che richiedano una ridefinizione delle misure comunque non oltre il 31 ottobre 2022 . 

Fonte: Min. Lavoro

Protocollo nota di aggiornamento esplicativa di Confindustria del 05 luglio 2022.

Protocollo-AntiCovid-Luoghi-Lavoro-30.06.2022.pdf

Nota-Confindustria—Protocollo-condiviso-30-giugno-2022.pdf

NORMA UNI EN 12464 SULLA ILLUMINAZIONE NEI LUOGHI DI LAVORO

La commissione UNI “Luce e illuminazione” ha pubblicato la norma UNI EN 12464-1:2021 (che sostituisce la UNI EN 12461:2011) dal titolo: “Luce e illuminazione – Illuminazione dei posti di lavoro – Parte 1: Posti di lavoro in interni” che indica i requisiti minimi per l’illuminazione dei luoghi di lavoro in modo da soddisfare le esigenze di sicurezza.

Una corretta illuminazione, all’interno dei luoghi di lavoro, garantisce un benessere visivo dei lavoratori tra l ‘altro normato dall’allegato IV “requisiti dei luoghi di lavoro” del TU 81/08, l’allegato XXXIV “videoterminali” del tu 81/2008 e la norma UNI EN 12464 “luce e illuminazione – illuminazione dei posti di lavoro”.

La UNI EN 12464-1

La norma UNI EN 126464-1 specifica i requisiti di illuminazione per persone, in posti di lavoro in interni. Sono considerati tutti i compiti visivi abituali, incluso l’utilizzo di attrezzature munite di videoterminali.

Sì devono soddisfare tre requisiti fondamentali:

  • confort visivo, con una buona illuminazione i lavoratori hanno una sensazione di benessere e in modo indiretto ciò contribuisce anche a generare un livello di produttività più elevato e una qualità del lavoro migliore;
  • prestazioni visive, in cui i lavoratori sono in grado di svolgere i loro compiti visivi, anche in condizioni di difficili circostanze e per periodi più lunghi;
  • sicurezza, i punti luce devono essere installati in sicurezza.

Per soddisfare tali requisiti è necessario considerare i parametri fondamentali che caratterizzano l’ambiente luminoso :

  • distribuzione delle luminanze, bisogna evitare elevati contrasti di luminanze eccessivamente elevati o troppo bassi ai fini di aumentare il comfort visivo; esistono veri e propri fattori di riflessione per il calcolo adatto alle luminanze:
    • per il soffitto da 0.6 a 0.9;
    • per le pareti da 0.3 a 0.8;
    • per i piani di lavoro da 0.2 a 0.6 e per il pavimento da 0.1 a 0.5;
  • illuminamento medio, ossia devono essere mantenuti degli illuminamenti medi per garantire il comfort visivo ai lavoratori e riguardano le superfici indicate nella zona del compito visivo;
  • illuminamento delle zone circostanti al compito che può essere più basso di quello del compito ma non deve essere minore a determinati valori;
  • abbagliamento molesto che impedisce una visione corretta del compito visivo;
  • apparenza del colore che si riferisce al colore apparente della luce emessa ed è definita dalla temperatura di colore correlata;
  • resa del colore che definisce la capacità effettiva della lampada a restituire in modo adeguato i colori;
  • fattore di manutenzione che deve essere stabilito dal progettista in base alle conoscenze dell’impianto.

SCOPERTE LE CAUSE DELLA TOSSICITÀ DELLA SILICE.

da healthdesk.it

La tossicità della silice cristallina è dovuta alla presenza di alcune speciali strutture chimiche, denominate “nearly free silanols” che si formano sulla superficie dei cristalli durante i processi di fratturazione. 

Silice al microscopio

È quanto hanno scoperto ricercatori del dipartimento di Chimica e del centro interdipartimentale NIS (Nanostructured Interfaces and Surfaces) dell’Università di Torino in uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences.

La silice, biossido di silicio, o quarzo nella sua forma cristallina più comune, è un costituente ubiquitario della crosta terrestre. Il quarzo è usato in molti processi industriali e diversi milioni di lavoratori sono esposti ogni giorno alle sue polveri. Respirare polvere di quarzo nei luoghi di lavoro può causare gravi malattie come silicosi, tumori del polmone e malattie autoimmuni. Nonostante le misure di prevenzione, nuovi materiali e recenti tecnologie (taglio e lucidatura dei marmi artificiali, sabbiatura dei jeans, lavorazione di gioielli) hanno prodotto nuovi e gravi focolai di silicosi nel mondo. Ancora oggi, l’esposizione lavorativa alle polveri di quarzo resta la principale causa di malattie respiratorie professionali nel mondo.

Malgrado decenni di studi, i meccanismi molecolari che rendono la silice cristallina tossica non erano stati chiariti. La scoperta dei ricercatori dell’Università di Torino svela finalmente i meccanismi di tossicità della silice e potrebbe permettere lo sviluppo di processi volti a minimizzare la pericolosità di questo materiale nei luoghi di lavoro.

Il lavoro è dedicato al professor Gianmario Martra, che ha dato alla ricerca un contributo fondamentale, è deceduto mentre il lavoro veniva pubblicato.

IL CAMPIONAMENTO DI POLVERI INALABILI E RESPIRABILI

da inail.it

Il comportamento delle particelle di polvere nell’organismo umano dipende dalle dimensioni della particella e dalle sue proprietà chimico-mineralogiche.

L’apparato respiratorio è il sistema maggiormente esposto alle polveri; esso è convenzionalmente suddiviso in tre regioni: naso-faringea, tracheobronchiale e regione di scambio gassoso. Nel definire i criteri per il campionamento delle polveri occorre tenere conto delle relazioni tra il diametro aerodinamico e le frazioni che devono essere raccolte, al fine di approssimare le frazioni che penetrano nelle varie regioni dell’apparato respiratorio in condizioni medie. Nel presente lavoro si analizzano i criteri di campionamento delle frazioni inalabile e respirabile delle polveri.


Prodotto: Fact sheet
Edizioni: Inail 2022
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it 

SENSORI E BIOSENSORI PER IL MONITORAGGIO AMBIENTALE

Un sensore è un dispositivo analitico che trasforma un segnale chimico in un segnale analogico, elettrico, digitale, etc. Formalmente la IUPAC definisce il sensore come: “un sistema in grado di trasformare un’informazione chimica, che va dalla concentrazione di un singolo componente specifico del campione in analisi alla concentrazione di tutti i componenti l’intera matrice, in un segnale analiticamente utile”.
Un biosensore è un dispositivo analitico che utilizza un componente biologico collegato a un rilevatore fisico per l’identificazione o la quantificazione di specifici composti all’interno di un campione.

L’elemento biologico selettivo, ad esempio un anticorpo o enzima, generalmente presenta un’elevata affinità di legame e selettività per l’analita da ricercare. Nei biosensori più comuni, un elemento biologico che è stato immobilizzato su una superficie solida si lega a un analita target all’interno di una miscela campione. L’intensità dell’interazione è misurata con uno speciale trasduttore, che converte il segnale biochimico in un segnale elettrico misurabile che può essere messo in relazione con la concentrazione dell’analita (lo scopo finale per il suo utilizzo).

La principale caratteristica di un biosensore è la specificità che è garantita dall’utilizzo di recettori biologici che per loro natura intrinseca sono specifici verso particolari analitiLa specificità si definisce come la capacità di reagire solo con un determinato analita e non con altri che possono essere presenti nel nostro ambiente di misura.

Fino ad alcuni anni fa i sensori erano oggetti molto delicati, con risposte lente, spesso non reversibili, cioè potevano essere usati per poche misure, addirittura a volte erano monouso e ciò che li rendeva poco “appetibili” era che le concentrazioni di misura erano molto alte, assai lontane dai limiti prestazionali estremamente bassi di LOD e LOQ richiesti ai metodi analitici per molti inquinanti.
Attualmente, invece, la ricerca e la tecnologia hanno permesso la messa a punto di sensori e, soprattutto, di biosensori, con caratteristiche peculiari e che li rendono così diffusi quali:

– Alta sensibilità
– Velocità di misura
– Economicità
– Reversibilità
– Stabilità nell’utilizzo intensivo
– Utilizzo in campo, senza necessità di tornare in laboratorio per le analisi: quindi risposta economica e immediata.

Oggigiorno tali dispositivi sono presenti dappertutto con l’intento di migliorare la qualità della nostra vita in ogni applicazione tecnologicamente avanzata. Sono, ad esempio, un elemento essenziale per il controllo e la diagnostica in settori come la casa, l’auto, la medicina, l’automazione industriale, le telecomunicazioni, l’ambiente, l’agricoltura. I sensori trovano ormai ampia applicazione nei più svariati campi, quali il monitoraggio ambientale, l’analisi alimentare, la diagnostica medica e, più recentemente, nella rilevazione di gas tossici e di materiali esplosivi.

La possibilità di coniugare l’elevata specificità di sistemi biologicamente attivi (enzimi, anticorpi, componenti di membrana, batteri, cellule, tessuti viventi animali o vegetali) con la sensibilità e praticità dei metodi elettrochimici di analisi (potenziometrici ed amperometrici), ha aperto alla ricerca un fertile campo di indagine e portato allo sviluppo di applicazioni di rilevante interesse sia teorico sia applicativo.
Le stesse caratteristiche costruttive di un biosensore lo rendono assai specifico per molecole target e rendono possibile il suo utilizzo anche in semplici sistemi in flusso continuo, permettendo il monitoraggio e l’automazione di apparecchiature biochimiche e cliniche, di processi biotecnologici, di processi industriali e nel monitoraggio ambientale.

I biosensori vengono classificati in base alla natura del mediatore biologico oppure rispetto al tipo di trasduzione impiegata.
La classificazione in base al mediatore biologico li distingue in:
-biosensori biocatalitici o sensori enzimatici;
-biosensori chemorecettoriali;
-immunosensori, ossia biosensori basati sulle interazioni antigene-anticorpo.

La classificazione in base al tipo di trasduzione del segnale, invece, li distingue in:
– biosensori elettrochimici o bioelettrodi;
– biosensori ottici o bio-optrodi;
– biosensori calorimetrici o biotermistori;
– biosensori acustici.

OGGI

Oggi sono disponibili per applicazioni di monitoraggio ambientale biosensori basati sull’enzima ureasi capaci di rivelare concentrazioni nanomolari di mercurio, e micromolari di rame e cadmio. Concentrazioni a livello di ppb di atrazina possono essere efficacemente determinate con biosensori amperometrici basati sull’enzima tirosinasi. Biosensori microbici basati sul batterio Escherichia coli geneticamente modificato possono rivelare concentrazioni fino a livelli nanomolari di un insetticida e acaricida organofosforico come il parathion e di altri pesticidi. Sensori fotoelettrochimici basati su aptameri permettono di rivelare concentrazioni dell’antibiotico tetraciclina a livelli picomolari. Biosensori basati sul DNA permettono di rivelare concentrazioni del vibrione del colera fino a livelli attomolari e meno.
Sensori biomimetici basati sulla cisteina permettono di determinare mercurio fino a livelli picomolari.

C’è un altro aspetto molto importante del rapporto tra analisi chimica convenzionale e analisi effettuata con sensori chimici o con biosensori, ed è legato agli aspetti ecologici, o di green chemistry o, con un termine ormai anche troppo abusato, di sostenibilità.
Se si possono eseguire analisi in meno tempo, con meno sforzo, riducendo i requisiti per campioni e reagenti, con persone meno preparate, condensando la complessità delle informazioni al minimo livello richiesto e raggiungere gli scopi in un laboratorio minimamente attrezzato o addirittura in loco, al di fuori del laboratorio, il risparmio è evidente.

PROSPETTIVE FUTURE

Oggi i sensori in genere sono capaci di rilevare in maniera aspecifica molte sostanze, ovvero in maniera accurata la concentrazione di una singola specifica molecola.

Tra tanti, il problema dei miasmi legati alle emissioni diffuse delle discariche, dei siti di compostaggio e di altre attività industriali costituisce un grave problema ambientale. Sarebbe assai utile poter effettuare monitoraggi in continuo e senza rischio per i tecnici. Tuttavia, i cosiddetti nasi elettronici sono ancora molto lontani dalle performance del naso umano e soprattutto del naso dei cani o di altri animali, in quanto questi ultimi riescono a rilevare centinaia o migliaia di sostanze; i nasi elettronici, invece, sono dispositivi complessi ottenuti mettendo insieme più sensori, ciascuno specifico per una determinata molecola o classe molto ristretta di molecole; la matrice ottenuta dalle singole risposte porta a un’impronta digitale che in qualche maniera cerca di emulare il funzionamento del naso umano (o canino) e determinare la presenza solo di qualche decina o al massimo centinaio di molecole: di qui la loro ancora limitata applicazione.

Nel futuro dei biosensori la ricerca guarda soprattutto alla possibilità di rilevamento simultaneo di più inquinanti

. Per esempio, di recente elettrodi prodotti mediante serigrafia hanno permesso l’identificazione parallela di estradiolo, paracetamolo e idrochinone in acqua di rubinetto; questi elettrodi potrebbero avere un’applicazione importante nell’analisi delle acque reflue.

I primi passi verso la realizzazione di un biosensore basato su alghe con due meccanismi di rilevamento distinti, elettrochimico e ottico, hanno mostrato prospettive promettenti per l’identificazione simultanea di più pesticidi in campioni d’acqua.

TUTTI

Tutti oggi possono acquistare con pochi euro un sensore per monitorare la temperatura e l’umidità dell’aria, la concentrazione delle sostanze organiche volatili, degli “inquinanti”. Sono disponibili sui siti dell’e-commerce apparecchi integrati per la misura della temperatura, del pH, del cloro libero, della conducibilità, che ormai costano anche meno di dieci euro, mentre la misura di questi parametri in laboratorio comporta una spesa iniziale di alcuni ordini di grandezza superiore.

Quando queste misure hanno valore ludico, o semplicemente informativo, tali sistemi sono più che rispondenti alle necessità, ma quando le misure vengono utilizzate per scopo professionale, questo può avere implicazioni anche serie.

E IL CHIMICO?

Il chimico ha il compito di leggere, interpretare e validare i dati che provengono dal sensore, di qualunque natura esso sia; di verificare quali siano le interferenze per quella matrice e se il sensore sia applicabile in quel determinato contesto e con quali tolleranze. Soprattutto il chimico sa e deve scegliere quale sensore, per quale matrice, per quale misura, affinché, come diceva Carlo Magno, mensurae et pondera ubique aequalia sint et iusta.

articolo originale del

Dott. Chim. Marco Trifuoggi.

tratto da federazione nazionale dei chimici e dei fisici: https://www.chimicifisici.it/sensori-e-biosensori-per-il-monitoraggio-ambientale/

VISIONE , ASTENOPIA , DIFETTI REFRATTIVI E BUON USO DEI VIDEOTERMINALI.

L’evoluzione della tecnologia ci facilita la vita, ma rappresenta una vera e propria minaccia per la salute dei nostri occhi. Passiamo ormai molte ore della giornata non solo davanti al pc per motivi di lavoro, ma anche con gli occhi fissi sui nostri nuovi “giocattoli” tecnologici, smartphone e tablet in primis, e su vecchie fiamme come la TV.
Uno studio dell’Università Keio di Tokyo pubblicato su Jama Ophthalmology, ha studiato gli effetti di un’esposizione prolungata agli schermi dei computer sui nostri occhi, segnalando in particolare il fatto che gli occhi dei lavoratori mostrano poco film lacrimale, necessario alla loro protezione. Inoltre, c’è anche una carenza della proteina che è la base del film lacrimale.


Gli scienziati giapponesi hanno analizzato quasi 100 persone che lavoravano in ufficio, esaminando la composizione del film lacrimale e ponendo loro delle domande sul numero domande sul numero di ore trascorse davanti al pc e sulla salute dei loro occhi.
Dai dati è emerso che il 7 per cento degli uomini e il 14 per cento delle donne aveva la cosiddetta sindrome dell’occhio secco. Inoltre, molti si lamentavano per le irritazioni, il bruciore e la vista appannata.
In questi casi, ovviamente, non bisogna perdere tempo e rivolgersi immediatamente a un oculista.
Nel caso in cui avvertissimo soltanto stanchezza oculare o secchezza, qualche piccolo suggerimento può migliorare la situazione:
fai un break ogni tanto. Dai ai tuoi occhi un riposo di qualche minuto, semplicemente rilassandoti. Togli gli occhiali se li indossi, chiudi gli occhi, fai un bel respiro profondo e stai per qualche minuto lontano dallo schermo.
Una volta a casa, non continuare a lavorare. Lascia perdere le mail e il telefono. Aspetta almeno un’ora prima di leggere un libro.


Cambia le luci. La luce dev’essere diffusa, ma non eccessiva, e deve illuminare l’ambiente in maniera corretta. Fai delle prove per capire il livello di illuminazione giusta per i tuoi occhi, che non sia né troppo bassa né troppo potente.
Batti le ciglia. Può sembrare uno strano consiglio, ma in realtà quando lavoriamo davanti a uno schermo tendiamo a ridurre il numero dei battiti di ciglia, il che provoca secchezza oculare e conseguente affaticamento che potremmo anche non cogliere al momento. Se necessario, utilizza le lacrime artificiali per bilanciare la situazione.
Concediti un massaggio. Quando lavoriamo davanti al computer i muscoli frontali tendono ad irrigidirsi, e se passiamo qualche minuto a massaggiarci la testa, la fronte e il collo, ci rilasseremo abbassando lo stress.
Da tenere in considerazione anche la regolazione della luminosità dello schermo. Dovrebbe essere abbastanza luminoso da consentire la lettura in maniera confortevole, ma non troppo illuminato rispetto a ciò che lo circonda, perché in questo caso il contrasto costringerebbe la retina a lavorare di più per compensare la differenza.


Francesco Loperfido, responsabile del Servizio di Oftalmologia generale dell’Irccs San Raffaele di Milano e consulente della Commissione Difesa Vista, ricorda: “il Tu 81, regola a livello europeo e italiano le problematiche per i lavoratori che fanno uso di terminali dalle tre alle 8 ore al giorno. La normativa impone una visita oculistica il cui referto viene valutato dal medico competente, ovvero il medico del lavoro, che darà l’idoneità in base anche ad altre valutazioni eseguite”.
L’obiettivo di questi screening non è solo stabilire se il lavoratore soffre di un difetto visivo, ma anche capire se l’eventuale problema è stato gestito nel modo più opportuno. Un’azione correttiva ‘doc’ non si limita infatti all’utilizzo di lenti specifiche, ma coinvolge tutto l’ambiente dell’ufficio: il monitor del computer, la scrivania, la sedia e le fonti di luce della stanza.
Qualche esempio. Una persona miope che non impiega le correzioni adeguate, evidenzia Loperfido, “modifica la sua postura in avanti sovraccaricando il collo. E il tutto causa maggiori bruciori agli occhi per la vicinanza allo schermo, e fastidi causati dalla contemporanea necessità di scrivere sulla tastiera e guardare il monitor”. L’ipermetrope, invece, “ha il problema opposto: dopo un po’ i caratteri si sdoppiano” e il lavoratore “tende ad allontanarsi dallo schermo, problema che si accentua con la presbiopia”. Gli astigmatici, infine, “tendono ad avere posture lateralizzate per compensare difetti elevati”. Tutte “queste ‘accomodazioni’ possono provocare una serie di disturbi che prendono il nome di astenopia accomodativa”: una vera e propria sindrome clinica che si manifesta con “fotofobia, riduzione dell’acuità visiva, visione sfuocata o doppia, lacrimazione, prurito, irritazione, cefalea, nausea, vertigine e tensione generale”, sottolinea lo specialista. Se poi si indossano gli occhiali da vista, gli schermi producono riflessi sulle superfici esterna e interna degli occhiali stessi. Riflessi che si sovrappongono sulla retina alle immagini visive, creando aloni che stancano l’occhio. Per questo “è buona norma utilizzare lenti trattate con filtri antiriflesso”, consiglia il medico.
Per chi ha invece più di un difetto visivo, fra cui la presbiopia, “la soluzione è quella delle lenti progressive” che “consentono una visione nitida a tutte le distanze.

Anche alcune lenti colorate possono essere utili a ridurre la luce dello sfondo e migliorare il contrasto”. Attenzione poi con le lenti a contatto, ammonisce Loperfido, perché “davanti allo schermo del computer diminuisce la frequenza degli ammiccamenti oculari, si riduce il film lacrimale e l’occhio è visibilmente più asciutto” e più vulnerabile. Per proteggere gli occhi dei ‘forzati del pc’ è inoltre fondamentale la scelta del monitor. I più sicuri sono quelli “piatti di ultima generazione”, dice l’oculista: ottimizzano contrasto e risoluzione, riducono i campi elettrostatici (tra le cause dell’occhio asciutto) e “favoriscono una maggiore distanza tra occhio e video. Soprattutto in quelle postazioni di lavoro (tipo le reception) dove spazi esigui facilitano posture sbagliate incrementando l’astenopia”.
Per quanto riguarda le fonti di luce, gli esperti affermano che è necessario evitare riflessi sullo schermo: la luce deve essere presente, ma contenuta, e il contrasto tra schermo e ambiente appropriato. È infine fondamentale che le fonti luminose siano perpendicolari allo schermo (né di fronte né alle spalle dell’operatore), e la postazione pc deve essere distante almeno un metro dalle finestre (schermate con tende regolabili). E ancora.

La sedia ‘sana’ deve essere ben bilanciata, deve muoversi su rotelle autofrenanti, deve avere un sedile regolabile in altezza e uno schienale posizionato in modo da sostenere la zona lombare. La scrivania, invece, deve avere una superficie opaca, preferibilmente di colori tenui o neutri. Le dimensioni devono permettere una certa libertà nel posizionare gli elementi sulla scrivania, e la distanza tra bordo e tastiera deve essere di almeno di 15 centimetri per poter appoggiare gli avambracci.
Per finire, le pause. Qualche datore di lavoro storcerà il naso, ma per salvaguardare la salute oculare è importante ‘staccare la spina’ per 15 minuti ogni due ore di lavoro. Le pause benefiche sono un diritto previsto dalle legge e durante lo ‘stop’ è consigliabile sgranchirsi braccia e schiena, senza tuttavia impegnare gli occhi. Da italiasalute.it

AMIANTO E MESOTELIOMA

Un tipo di tumore, il mesotelioma della pleura, che lega il suo nome con un colpevole spesso ricorrente: l’amianto. La correlazione si conosce da tempo. E nel corso degli anni si sono prese le dovute misure di prevenzione e di bonifica ambientale, ma la lunga latenza della malattia, possono passare anche 20-30 anni dall’esposizione, sta determinando un ritardo sul raggiungimento dell’effetto positivo sperato. Il mesotelioma rimane comunque un tumore raro, anche se nelle aree più industrializzate come la Lombardia i casi sono più concentrati.

Il mesotelioma pleurico è una forma tumorale che origina dal mesotelio pleurico, la sottile membrana che riveste e protegge i polmoni. È un tumore in costante aumento che colpisce più frequentemente gli uomini. In Italia si verificano 3,4 casi di mesotelioma ogni 100.000 uomini e 1,1 ogni 100.000 donne. È difficile riscontrarlo prima dei 50 anni e presenta un picco d’esordio attorno ai 70. 

Il principale fattore causale e di rischio è l’esposizione all’amianto (o asbesto): la maggior parte di questi tumori riguarda infatti persone che sono entrate in contatto con questa sostanza. L’amianto è pericoloso per la salute in quanto le fibre che lo compongono, oltre mille volte più sottili di un capello umano, possono essere inalate. Possono così, anche se non in tutti i casi di contatto, causare vari tipi di problemi, tra cui il mesotelioma. Va sottolineato che possono passare anche più di 20 anni tra l’inalazione dell’amianto e l’insorgenza del tumore e che il rischio non diminuisce una volta eliminata completamente l’esposizione, ma rimane costante per tutta la vita.

Il primo contatto

Spesso i primi segnali sono di natura non specifica, cioè possono essere uguali a quelli causati da altre malattie che colpiscono, ad esempio, l’apparato cardio-respiratorio. In generale si tratta di sensazione di “fiato corto” (dispnea), dolore al petto o al dorso, tosse persistente e perdita di peso ingiustificata.

La diagnosi

Nella maggior parte dei casi i sintomi respiratori sono causati da un eccessivo accumulo di liquido (versamento) nello spazio compreso tra i due foglietti pleurici o dall’inspessimento dei foglietti stessi. Questo porta ad una compressione dei polmoni, che non riescono così ad espandersi adeguatamente durante la respirazione. Alcuni pazienti, infine, possono non manifestare alcun disturbo pur presentando la malattia, che invece viene scoperta occasionalmente, con esami radiologici condotti per altre motivazioni. 
Per la diagnosi non è sufficiente la sola radiografia del torace o gli altri esami radiologici, come la TAC, la PET e la risonanza magnetica. Le immagini possono descrivere qualcosa di anomalo, ma non consentono di identificare la natura del tumore. Per questo l’esame indispensabile per la diagnosi di mesotelioma è la biopsia del tessuto ammalato che viene eseguita per via endoscopica, con la toracoscopia. L’accesso avviene attraverso una singola incisione di un centimetro a livello dello spazio intercostale. Una volta introdotta l’ottica si esplora il cavo pleurico, si aspira tutto il liquido in eccesso e si eseguono una serie di biopsie multiple della pleura, così da assicurarsi una diagnosi istologica.

Le terapie mediche e radioterapiche

La scelta della terapia dipende dalla stadiazione e dalle caratteristiche del caso. L’approccio da intraprendere emerge da un confronto multidisciplinare tra l’oncologo, il chirurgo toracico, lo pneumologo, il radiologo e il radioterapista. Nelle forme iniziali, generalmente, il piano di cura prevede tre cicli di terapia medica per via endovenosa (chemioterapia).
Oggi questa terapia di induzione può contare su farmaci moderni come pemetrexed e platino ed è generalmente ben tollerata.

La terapia chirurgica

Se la crescita della malattia è controllata dalla chemioterapia, si procede con l’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di tutta la pleura (pleurectomia e decorticazione).
In alternativa, quando le condizioni del paziente lo consentono, si procede con l’asportazione in blocco della pleura del polmone, del diaframma e del pericardio (pleuropneumonectomia en bloc). Questo intervento è molto invasivo e deve essere fatto solo in centri altamente qualificati. Ma è proprio la sua radicalità che permette, in casi selezionati, di ottenere successi significativi con una buona sopravvivenza a distanza.

da ospedaleniguarda.it

CONSIGLI PRATICI PER LA PREVENZIONE DEI DISTURBI MUSCOLOSCHELETRICI

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da OSHA.eu

Il costo dei disturbi muscolo-scheletrici (DMS) lavoro-correlati è elevato sia per il personale sia per le imprese di tutta l’UE. La soluzione per ridurre i DMS è il lavoratore stesso.

Una nuova scheda informativa fornisce consigli pratici su come coinvolgere attivamente i lavoratori nella prevenzione dei DMS. I lavoratori possono individuare i pericoli e i possibili rischi, elaborare risposte per garantire un luogo di lavoro più sicuro e più sano e metterle in pratica. I risultati di questo approccio efficiente sul piano dei costi includono una maggiore consapevolezza dei rischi sul luogo di lavoro, una riduzione dei tassi di infortunio e una motivazione e un impegno maggiori fra i dipendenti.

Consulta la scheda informativa Prevenzione dei disturbi muscolo-scheletrici (DMS) attraverso la partecipazione attiva dei lavoratori: consigli per buone pratiche.

Per maggiori informazioni, guarda la presentazione Powerpoint Prevenzione dei disturbi muscolo-scheletrici (DMS) attraverso la partecipazione attiva dei lavoratori.

Consulta altre pubblicazioni sulla partecipazione dei lavoratori alla prevenzione dei rischi muscolo-scheletrici.

Leggi la scheda Prevenzione nella sezione «Ambiti prioritari» della campagna «Alleggeriamo il carico!».