L’immunoprotezione dall’infezione puó indebolirsi nel tempo man mano che cala il livello di anticorpi neutralizzanti e quindi un richiamo potrebbe servire entro un anno dalla seconda dose
L’immunità data dal vaccino anti-Covid di Moderna potrebbe durare circa 7-8 mesi, in modo simile a quanto avviene per l’influenza, rendendo necessario un nuovo richiamo entro 12 mesi dalla vaccinazione. Lo spiega la stessa azienda nei dati presentati nel suo Vaccine Day la scorsa settimana e in uno studio dell’Università del Nuovo Galles pubblicato sul sito medrXiv, dove vengono messe le ricerche ancora non validate dalla comunità scientifica. Secondo i suoi modelli, l’immunoprotezione dall’infezione puó indebolirsi nel tempo man mano che cala il livello di anticorpi neutralizzanti e quindi un richiamo potrebbe servire entro un anno dalla seconda dose. Tuttavia, spiega l’azienda, la protezione dalla forma grave dell’infezione potrebbe durare più a lungo. Sulla base dei dati finora disponibili sugli anticorpi neutralizzanti, secondo lo studio, la protezione potrebbe essere simile a quella vista contro le infezioni da influenza e coronavirus stagionali, dove è possibile una re-infezione dopo un anno dalla prima infezione ma in forma più lieve. In modo simile, dopo il vaccino antinflenzale, l’efficacia della sua protezione si stima cali di circa il 7% al mese.
Più che alla distanza interpersonale, negli ambienti chiusi bisognerebbe prestare maggior attenzione al tempo che vi si trascorre per ridurre il rischio di contagio del virus Sars-Cov-2
Il distanziamentointerpersonale è una delle misure fondamentali per riuscire a tenere sotto controllo la pandemia da Covid-19 e abbassare il rischio di contagio del coronavirus. Tuttavia, negli ambienti al chiuso il discorso potrebbe leggermente cambiare: la distanza di sicurezza, infatti, potrebbe non bastare a proteggere dal contagio se il tempo in cui stiamo in un luogo chiuso è piuttosto prolungato. A giungere a questa conclusione sono stati due ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit), che in un nuovo studio pubblicato su Pnas, dimostrano che il rischio di esposizione alla Covid-19 può essere tanto grande a 18 metri quanto a 2 metri in un ambiente chiuso, anche quando si indossa una mascherina. Ecco perché.
Prendendo in considerazione i molteplici fattori che possono influenzare la trasmissione del coronavirus in un ambiente chiuso, come la grandezza dello spazio, il numero di persone, la quantità di tempo, la circolazione dell’aria, l’uso di mascherine e addirittura le diverse attività come respirare, mangiare, parlare e cantare, i due autori dello studio, Martin Z. Bazant e John W.M. Bush, hanno sviluppato un modello in grado di calcolare il rischio di esposizione al Covid-19 in un ambiente interno e dare una stima di quanto tempo ci vorrebbe, in determinate circostanze, di essere contagiati. La loro conclusione, che mette in discussione le linee guida che raccomandano un distanziamento interpersonale generico di 2 metri, è che stare alla distanza raccomandata potrebbe non esseresufficiente quando si è in un luogo al chiuso per lunghi periodi di tempo.
In sostanza, quindi, più che alla distanza, bisognerebbe prestare maggior attenzione al tempo di permanenza. Più a lungo qualcuno è in un luogo chiuso con una persona infetta, maggiore è la possibilità di trasmissione del virus. “Il nostro studio indica che la raccomandazione dei due metri non è sufficiente per limitare la trasmissione aerea interna della Covid-19: bisogna anche limitare il tempo trascorso in uno spazio interno”, spiegano alla Cnbc i due ricercatori. “Abbiamo dimostrato che questo limite di tempo dipende da fattori come la ventilazione e il filtraggio dell’ambiente a e l’uso delle mascherine”.
Come raccontano i ricercatori, spazi piccoli e scarsamente ventilati, dove molte persone trascorrono molto tempo insieme, espongono a un maggior rischio di contagio del coronavirus. “Purtroppo, una casa di cura è tra questi casi. Se i pazienti Covid-19 vivono insieme 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in alcuni casi anche nella stessa stanza, questo è lo scenario peggiore in assoluto, soprattutto data la loro vulnerabilità”, ha aggiunto Bazant. Mentre, dall’altra parte, non c’era bisogno di chiudere molti altri luoghi. “Spesso lo spazio è abbastanza grande, la ventilazione è abbastanza buona, la quantità di tempo che le persone trascorrono insieme è tale che quegli spazi possono essere gestiti in sicurezza”.
Tutta questa attenzione sulla distanza, criticano gli autori dello studio, è stata fuori luogo sin dall’inizio. Oltre alle droplet, infatti, è ormai noto che la trasmissione aerea gioca un ruolo fondamentale nella diffusione del coronavirus: quelle piccole goccioline espirate da una persona infetta si mescolano con il calore corporeo e le correnti d’aria per viaggiare in tutto uno spazio chiuso e mettere tutti quelli che ci si trovano a rischio di contagio per via aerea. “La distanza non ci aiuta più di tanto e ci dà anche un falso senso di sicurezza. Perché potresti essere al sicuro a 2 come a 18 metri se sei al chiuso e c’è una buona ventilazione e filtrazione dell’aria”, aggiunge l’esperto. “Tutti in uno spazio chiuso corrono più o meno lo stesso rischio, in realtà”.
Lavoratori fragili, la sorveglianza sanitaria eccezionale continua a seguire lo stato di emergenza, arriva la proroga fino al 31 luglio 2021. I datori di lavoro pubblici o privati possono continuare a richiedere la visita medica ai servizi territoriali INAIL tramite il portale istituzionale. Le istruzioni da seguire.
Come diverse altre misure, la necessità di tutelare i lavoratori fragili con la sorveglianza sanitaria eccezionale segue i tempi dello stato di emergenza e viene prorogata fino al 31 luglio 2021.
Bisogna, quindi, continuare a mettere in pratica gli “atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa”, come si legge nella descrizione fornita dall’INAIL.
Stando alle novità introdotte, anche dopo il 30 aprile i datori di lavoro pubblici e privati devono continuare a garantire questa forma di tutela ai dipendenti, quelli che non sono tenuti alla nomina del medico competente per farlo possono scegliere di nominarne uno o richiedere la visita medica ai servizi territoriali INAIL tramite il portale istituzionale.
Lavoratori fragili, sorveglianza sanitaria eccezionale fino al 31 luglio 2021
La sorveglianza sanitaria eccezionale che il datore di lavoro deve assicurare ai lavoratori fragili rientra nella lista delle misure prorogate insieme allo stato di emergenza al 31 luglio 2021.
A prevederlo è l’articolo 11 del DL numero 52 del 2021, il cosiddetto Decreto Riaperture.
Il testo, infatti, interviene sui tempi di applicazione delle disposizioni previste dall’articolo 83 del Decreto Rilancio che stabilisce la necessità di “assicurare la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità”.
I datori di lavoro pubblici o privati che non sono tenuti alla nomina del medico competente hanno due modalità per tutelare i lavoratori fragili:
nominarne uno per il periodo emergenziale;
richiedere un’apposita visita medica ai servizi territoriali INAIL.
Lavoratori fragili, la sorveglianza sanitaria eccezionale: come richiedere la visita medica INAIL
Dal punto di vista pratico, l’attività di sorveglianza sanitaria eccezionale consiste in una visita medica per quei lavoratori e quelle lavoratrici che per malattie croniche, patologie oncologiche, con immunodepressione anche correlata a terapie salvavita in corso, o per co-morbilità, valutate anche in relazione dell’età, corrono un rischio più alto.
Come si individua il concetto di fragilità? Nelle condizioni dello stato di salute che potrebbero determinare, in caso di infezione da Covid, un esito più grave.
Con il servizio online INAIL dedicato alla sorveglianza sanitaria eccezionale, i datori di lavoro che non sono tenuti alla nomina di un medico competente possono richiedere la visita all’Istituto direttamente online.
Per accedere alla funzione del portale, è necessario essere muniti di credenziali dispositive che le aziende possono acquisire anche tramite:
Spid;
Inps;
Carta nazionale dei servizi (Cns);
con l’invio dell’apposito modulo da inoltrare attraverso i servizi online o da consegnare presso le sedi territoriali Inail.
Inviata la richiesta dal datore di lavoro, o da un suo delegato solo dopo aver compilato il modulo dedicato, l’INAIL individua il medico della sede territoriale più vicina al domicilio del lavoratore.
Sulla base dell’esito della visita medica, e quindi nel caso in cui sia accertata la condizione di fragilità, verranno fornite le indicazioni del caso per adottare soluzioni capaci di tutelare la salute del lavoratore o della lavoratrice per fronteggiare il rischio da coronavirus.
Se non esistono soluzioni alternative, viene formulato un giudizio di non idoneità temporanea.
Sul portale, infine, si legge:
“Successivamente all’invio del giudizio di idoneità, il datore di lavoro riceve una comunicazione con l’avviso di emissione della relativa fattura in esenzione da iva per il pagamento della prestazione effettuata. Con decreto interministeriale del 23 luglio 2020 la tariffa dovuta all’Inail per singola prestazione effettuata è stata fissata in € 50,85”.
Ulteriori dettagli sulla sorveglianza sanitaria eccezionale nella circolare INAIL numero 44 dell’11 dicembre 2020.
il Ministero e Aifa hanno pubblicato nuove indicazioni sulle terapie domiciliari per il Covid (clicca qui per scaricare il testo completo) che illustrano le modalità di gestione domiciliare del paziente affetto da COVID-19 da parte del Medico di Medicina Generale e del Pediatra di Libera Scelta sulla base delle conoscenze disponibili a oggi. Ma le linee guida – riporta Qutidiano Sanità – si rivolgono anche ai caregiver, agli infermieri e ai pazienti stessi.
Strumenti di monitoraggio domiciliare del paziente Per rendere omogenea e confrontabile la valutazione iniziale del paziente è importante utilizzare uno score che tenga conto della valutazione di diversi parametri vitali. La valutazione dei parametri al momento della diagnosi di infezione e il monitoraggio quotidiano, anche attraverso approccio telefonico o in forma di televisita, soprattutto nei pazienti sintomatici lievi è fondamentale poiché circa il 10-15% dei casi lievi progredisce verso forme severe.
È importante che il paziente e il suo caregiver se presente siano resi edotti della necessità di comunicare tempestivamente al MMG/PLS una eventuale variazione dei parametri. Uno degli score utilizzabili – si legge su Quotidiano Sanità – anche al fine di adottare un comune linguaggio a livello nazionale è il Modified Early Warning Score (MEWS, vedi Tabella), il quale ha il pregio di quantificare la gravità del quadro clinico osservato e la sua evoluzione, pur dovendosi tenere in conto eventuali limiti legati, per esempio, alla valutazione dello stato di coscienza in soggetti con preesistente deterioramento neurologico. Il MEWS, in associazione al dato pulsossimetrico a riposo o sotto sforzo, deve essere utilizzato oltre che nella valutazione iniziale anche durante il periodo di followup. L’instabilità clinica è correlata all’alterazione dei parametri fisiologici (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura corporea, livello di coscienza, saturazione di ossigeno) e permette di identificare il rischio di un rapido peggioramento clinico o di morte.
Attraverso la scala MEWS, i pazienti vengono stratificati nei seguenti gruppi di rischio: • rischio basso/stabile (score 0-2); • rischio medio/instabile (score 3-4); • rischio alto/critico (score 5).
Monitoraggio della saturazione dell’ossigeno a domicilio attraverso il pulsossimetro: sotto il 92% scatta l’allerta L’utilizzo clinico del pulsossimetro è validato da decenni di uso diffuso nelle strutture ospedaliere. In pazienti sani adulti, non fumatori, è considerata normale una saturazione superiore a 95%. Con l’aumentare dell’età, in particolare dopo i 70 anni, la capacità di saturazione ossiemoglobinica si può ridurre e presentare valori al di sotto di 94%, in particolare se concomitano patologie polmonari e/o cardiovascolari.
Sulla base dell’analisi della letteratura scientifica disponibile a oggi e sulla base delle caratteristiche tecniche dei saturimetri disponibili in commercio per uso extra-ospedaliero, si ritiene di considerare come valore soglia di sicurezza per un paziente COVID-19 domiciliato il 92% di saturazione dell’ossigeno (SpO2) in aria ambiente. Infatti, valori di saturazione superiori a questo limite hanno una assai bassa probabilità di associarsi a un quadro di polmonite interstiziale grave. Inoltre, il margine medio di accuratezza dei saturimetri commerciali è stimabile nell’ordine di ± 4%.
Il paziente – afferma Quotidiano Sanità – dovrà essere istruito sulla necessità di comunicare una variazione dei parametri rispetto al baseline e, in particolare, dovrà comunicare valori di saturazione di ossigeno inferiori al 92%. Qualora venga esclusa la necessità di ospedalizzazione, potrà essere attivata, con tutte le valutazioni prudenziali di fattibilità del caso, la fornitura di ossigenoterapia domiciliare. Nel caso di aggravamento delle condizioni cliniche, durante la fase di monitoraggio domiciliare, andrà eseguita una rapida e puntuale rivalutazione generale per verificare la necessità di una ospedalizzazione o valutazione specialistica, onde evitare il rischio di ospedalizzazioni tardive. È largamente raccomandabile che, in presenza di adeguata fornitura di dispositivi di protezione individuale (mascherine, tute con cappuccio, guanti, calzari, visiera), i MMG e i PLS, anche integrati dalle USCA, possano garantire una diretta valutazione dell’assistito attraverso l’esecuzione di visite domiciliari. Una rappresentazione schematica del monitoraggio del soggetto infettato da SARS-CoV-2 e della dinamica possibilità di transizione da paziente a basso rischio a paziente con un quadro in evoluzione peggiorativa tale da richiedere o una modifica della terapia o un riferimento a strutture di pronto soccorso è delineato nello schema riportato di seguito.
Principi di gestione della terapia farmacologica: No ad antibiotici Nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici, sulla base delle informazioni e dei dati attualmente disponibili, si forniscono le seguenti indicazioni di gestione clinica: • vigile attesa (intesa come costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente);
• misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno tramite pulsossimetria;
• trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico;
• appropriate idratazione e nutrizione, in particolare nei pazienti anziani. Nel paziente immobilizzato, visto l’aumentato rischio di sarcopenia va garantito un appropriato apporto proteico;
• promuovere, nei limiti consentiti dalle condizioni cliniche del paziente, l’attività fisica a domicilio che, anche se limitata, contribuisce a prevenire le conseguenze dell’immobilizzazione e dell’allettamento e può consentire una riduzione dell’indicazione all’utilizzo dell’eparina;
• raccomandare di assumere preferenzialmente, durante il riposo e compatibilmente con le condizioni del paziente, la posizione prona;
• valutazione, nei pazienti a rischio di progressione di malattia, della possibilità di trattamento precoce con anticorpi monoclonali da parte delle strutture abilitate alla prescrizione;
• i pazienti in trattamento immunosoppressivo cronico in ragione di un precedente trapianto di organo solido piuttosto che per malattie a patogenesi immunomediata, potranno proseguire il trattamento farmacologico in corso a meno di diversa indicazione da parte dello specialista curante;
non utilizzare routinariamente corticosteroidi. L’uso dei corticosteroidi è raccomandato esclusivamente nei soggetti con malattia COVID-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno. L’impiego di tali farmaci a domicilio può essere considerato solo in pazienti con fattori di rischio di progressione di malattia verso forme severe, in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia ove non sia possibile nell’immediato il ricovero per sovraccarico delle strutture ospedaliere. L’utilizzo della terapia precoce con steroidi si è rivelata inutile se non dannosa in quanto in grado di inficiare lo sviluppo di un’adeguata risposta immunitaria;
• non utilizzare eparina. L’uso di tale farmaco è indicato solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto;
• evitare l’uso empirico di antibiotici. La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti con la sola infezione virale da SARS-CoV2 non consentono di raccomandare l’utilizzo degli antibiotici, da soli o associati ad altri farmaci. Un ingiustificato utilizzo degli antibiotici può, inoltre, determinare l’insorgenza e il propagarsi di resistenze batteriche che potrebbero compromettere la risposta a terapie antibiotiche future. Il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi nei quali l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame 12 microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica;
• non utilizzare idrossiclorochina la cui efficacia non è stata confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti;
• non somministrare farmaci mediante aerosol se in isolamento con altri conviventi per il rischio di diffusione del virus nell’ambiente;
• non modificare, a meno di stringente ragione clinica, le terapie croniche in atto per altre patologie (es. terapie antiipertensive, ipolipemizzanti, ipoglicemizzanti, anticoagulanti o antiaggreganti, terapie psicotrope), in quanto si rischierebbe di provocare aggravamenti di condizioni preesistenti che possono avere anche un importante impatto sulla prognosi;
• evitare l’uso di benzodiazepine, soprattutto ad alto dosaggio, in considerazione dei possibili rischi di depressione respiratoria. Si segnala che non esistono, a oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato
Avvio del paziente alla terapia con anticorpi monoclonali In accordo con le specifiche determine autorizzative dell’AIFA, la selezione del paziente da trattare con anticorpi monoclonali è affidata ai MMG, ai PLS, ai medici delle USCA(R) e, in generale, ai medici che abbiano l’opportunità di entrare in contatto con pazienti affetti da COVID di recente insorgenza e con sintomi lievi-moderati. Questi devono essere indirizzati rapidamente ai centri regionali abilitati alla prescrizione degli anticorpi monoclonali per il COVID-19 soggetti a registro di monitoraggio AIFA
La terapia con anticorpi monoclonali anti SARS-CoV-2 deve essere riservata, in base alle evidenze di letteratura, a pazienti con COVID di recente insorgenza (al meglio entro 72 ore dalla diagnosi d’infezione da SARS-CoV-2 e comunque sintomatici da non oltre 10 giorni) con infezione confermata da SARS-CoV-2 e definiti ad alto rischio di sviluppare forme gravi in accordo alle determine autorizzative per la presenza delle condizioni elencate nell’apposita scheda riportata a pagina 22 del presente documento
Indicazioni relative alla gestione domiciliare del COVID-19 in età pediatrica ed evolutiva L’infezione da SARS-CoV-2 in età pediatrica ed evolutiva è caratterizzata prevalentemente, in tutte le fasce di età (0-18 anni), da assenza di sintomi o da quadri clinici lievi (la grande maggioranza) e/o di moderata entità (forma asintomatica o pauci-sintomatica). In base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, degli oltre 100.000 decessi causati dal COVID in Italia fino a marzo 2021, sono 19 quelli verificatisi in età evolutiva e quasi esclusivamente in soggetti fragili (affetti da importanti e pregresse patologie e/o sindromi).
In età evolutiva, quando presenti, i sintomi sono rappresentati principalmente da febbre, tosse, rinite e diarrea. Sintomi presenti e importanti nell’età adulta quali il dolore toracico, la dispnea, l’astenia, 14 sono molto rari. In pazienti sintomatici è stata riscontrata raramente ipossiemia, al contrario di quanto accade negli adulti.
I ragazzi più grandi, in età adolescenziale e preadolescenziale, possono accusare, invece, sintomi simili a quelli dell’adulto: alterazioni del gusto e dell’olfatto, vomito, mal di testa e dolore toracico.
Nei bambini asintomatici non occorre somministrare alcun farmaco, mentre in quelli che accusano sintomi simil-influenzali è consigliabile, in caso di necessità (febbre >38,5°C, mal di gola, cefalea, dolori articolari ecc.), su indicazione del Pediatra/Medico curante, somministrare terapia sintomatica con Paracetamolo (10 – 15 mg/kg/dose ogni 5-6 ore) o Ibuprofene (da 20 mg a 30 mg per kg di peso corporeo al giorno, sempre a stomaco pieno, divisi in tre dosi).
Durante la malattia è opportuno che il paziente stia a riposo a letto e che assuma molti liquidi. È raro che debbano essere assunti antibiotici, mentre i cortisonici non vanno somministrati. È molto raro che un bambino o un adolescente debba essere ricoverato in ospedale per cui, nella quasi totalità dei casi, i pazienti in età pediatrica devono essere assistiti a domicilio, nel rispetto delle misure di isolamento e mantenendo un contatto quotidiano (telefonico o tramite teleconsulto) con il Pediatra/Medico curante per il monitoraggio del quadro clinico.
È importante considerare come fattori di rischio di aggravamento e di necessità di ospedalizzazione sia l’età < 1 anno (particolarmente nei primi 6 mesi) che la presenza di patologie croniche (cardiopatie, malattie polmonari croniche, sindromi malformative, diabete, patologie oncologiche, epilessia, patologie neurologiche, disordini del metabolismo, nefropatie, immunodeficienze ecc.) che determinano un aumentato rischio di necessità di cure intensive. È importante, inoltre, non trascurare tutte le altre possibili cause di ospedalizzazione considerando sempre tutte le possibili diagnosi differenziali. Nel controllo a domicilio la comparsa di segnali di aggravamento, quali scarsa reattività e/o scarsa vivacità, sonnolenza, astenia ingravescente, anoressia importante con difficoltà ad assumere anche liquidi, tachicardia a riposo in apiressia, cianosi, dispnea a riposo, febbre elevata, ipotensione, possono imporre il ricovero in ospedale.
Prestazioni in Telemedicina Nell’attuale situazione di emergenza sanitaria il ricorso a prestazioni a distanza è pienamente giustificato poiché queste consentono la continuità delle cure per i pazienti in quarantena/isolamento garantendo la fruizione di servizi sanitari senza che il paziente debba recarsi presso le strutture sanitarie. In relazione all’infezione da SARS-CoV-2, come riportato nelle “Indicazioni ad interim per servizi assistenziali di telemedicina durante l’emergenza sanitaria COVID-19” (ISS COVID-19 n.12/2020) redatte dall’Istituto Superiore di Sanità, sono state individuate quattro tipologie di persone che necessitano di controlli sanitari nel luogo adibito a domicilio: 1) asintomatici che sono venuti in contatto con caso COVID-19 positivo; 2) paucisintomatici che sono venuti in contatto con caso COVID-19 positivo, con test COVID19 negativo; 3) paucisintomatici con test COVID-19 positivo; 4) dimessi dall’ospedale clinicamente guariti, ancora COVID-19 positivi. Questo elenco è stato concepito per tenere sotto controllo sanitario le persone che si sono contagiate o che siano sospettate di esserlo, in base alle conoscenze attuali circa il nuovo coronavirus SARSCoV-2, al fine di contrastare la diffusione del contagio e per sorvegliare eventuali aggravamenti clinici legati alla malattia virale anche in telemedicina.
Si sconsiglia, a titolo precauzionale, l’utilizzo dei servizi in telemedicina nelle seguenti situazioni: ·paziente non conosciuto prima dell’emergenza sanitaria che al primo contatto mostri anche uno solo dei seguenti segni: stato di coscienza alterato, dispnea a riposo, pressione sistolica minore o uguale 100 mmHg in più rilevazioni nell’arco della giornata (se tale misurazione è eseguibile presso il paziente). In questi casi è indicata la valutazione in presenza da parte del medico e l’eventuale invio del paziente al ricovero ospedaliero, secondo le procedure previste;
·pazienti con patologie acute o riacutizzazioni di patologie croniche in atto, anche se indirizzati all’isolamento (a eccezione di piccoli traumatismi gestibili, salvo complicazioni, in ambito domiciliare);
·pazienti con patologie croniche e fragilità o con disabilità che rendano imprudente la permanenza a domicilio in presenza di sintomi da COVID-19.
Naturalmente, la valutazione finale degli strumenti idonei per il singolo paziente, che, in caso di telemedicina prevedono la raccolta del consenso informato del paziente, spetta al medico, che ne ha la responsabilità e deve essere effettuata considerando il contesto organizzativo locale.
Anticorpo monoclonale “bispecifico” che blocca le varianti e previene la malattia da Covid-19: è quanto pubblicato da ricercatori europei che hanno trovato la chiave per bloccare il virus
Ottime notizie sul fronte della lotta al Covid-19: un nuovo, super, anticorpo monoclonale sarebbe in grado di fermare il Covid-19 ma soprattutto le varianti che tanto preoccupano per la loro maggiore infettività.
L’anticorpo “bispecifico”
Il suo nome tecnico è CoV-X2 e l’altra grande novità riguarda la prevenzione: l’anticorpo nato in laboratorio sarebbe in grado di prevenire anche la malattia. Lo studio, condotto da ricercatori europei e pubblicato su una delle riviste scientifiche mondiali più importanti, Nature (clicca qui per vedere il lavoro) parla anche italiano grazie a ricercatori del Policlinico San Matteo di Pavia. Grande soddisfazione dalla finanziatrice del progetto di ricerca, Mariya Gabriel, Commissaria per l’istruzione, gioventù, sport e cultura della Comunità Europea, ha espresso soddisfazione per il risultato: “Grazie al lavoro dei ricercatori finanziati dall’UE, questa nuova scoperta potrebbe prevenire e trattare i casi di Covid-19, salvando delle vite”. L’anticorpo “bispecifico”, chiamato così perché a doppia azione, riconosce contemporaneamente due diversi antigeni (molecole) del virus.
Ecco come funziona CoV-X2
“Abbiamo dimostrato che l’anticorpo bispecifico CoV-X2 è più efficace dei relativi anticorpi monoclonali nell’inibire il legame con l’ACE2”, scrivono i ricercatori. Ricordiamo che l’Ace2 è il recettore che serve al Covid per entrare nelle nostre cellule e replicarsi: in questo caso, i ricercatori hanno unito due anticorpi naturali in una singola molecola artificiale dimostrando la protezione dalle varianti di Sars-CoV-2. A differenza degli anticorpi che riconoscono un singolo antigene, il doppio legame di quelli bispecifici riduce sensibilmente la selezione di varianti resistenti dandogli un’efficacia molto elevata rendendolo un ottimo candidato per la sperimentazione clinica, con buone possibilità di utilizzo sia nella prevenzione della malattia sia nella cura di pazienti. “L’anticorpo è stato sviluppato nell’ambito dell’attività del progetto di ricerca ATAC (Antibody Therapy AgainstCoronavirus), finanziato dall’European Research Council (ERC)”, spiega a Repubblica Fausto Baldanti, Responsabile del laboratorio di Virologia molecolare del San Matteo. Del consorzio di ricerca fanno parte anche il Karolinska Institutet di Stoccolma (Svezia, l’Istituto di Ricerca in biomedicina (IRB) di Bellinzona (Svizzera), l’Università di Braunschweig (Germania) e il Joint Research Center (JCR) della Commissione Europea. Ha collaborato pure la Rockfeller University di New York.Gli anticorpi ‘a doppia azione’: arrivano i nuovi monoclonali
Gli anticorpi di Gsk
Poco più di un mese fa abbiamo trattato l’argomento con un articolo di approndimento sugli anticorpi monoclonali che stanno sperimentando con ottimi risultati Vir Biotechnology e l’industria farmaceutica britannica GSK (GlaxoSmithKline), quest’ultima con numerose sedi in Italia. In un comunicato congiunto, Vir e GSK hanno intenzione di richiedere immediatamente l’autorizzazione all’uso di emergenza negli Stati Uniti e ed in altri Paesi annunciando che il loro monoclonale riduce l’ospedalizzazione ed il rischio di morte nel trattamento precoce degli adulti con Covid-19. In un comunicato congiunto, Vir e GSK hanno richiesto l’autorizzazione all’uso di emergenza negli Stati Uniti e ed in altri Paesi annunciando che il loro monoclonale riduce l’ospedalizzazione ed il rischio di morte nel trattamento precoce degli adulti con Covid-19. Lo ha stabilito un comitato indipendente di monitoraggio dei dati (Idmc) che ha valutato la Fase 3 della cura con VIR-7831 (il nome dell’anticorpo monoclonale) come monoterapia per il trattamento precoce di Covid-19 negli adulti ad alto rischio di ospedalizzazione.
Stimato un aumento di almeno il 30% dei pazienti presi in carico dal Ssn. Mancano personale e strutture.
Da ilsole24ore
Ce lo hanno promesso gli esperti: per l’infezione da Covid la svolta arriverà con la vaccinazione di massa ed è a quella che tra mille stop&go il mondo guarda. Ma c’è una pandemia ancor più subdola e per la quale il vaccino pare ancora più complicato da trovare: sono i disturbi psichici e psichiatrici, schizzati in alto proprio per il dilagare del coronavirus. Uno tsunami mondiale, che in un’Italia pesantemente sguarnita sul fronte dei servizi e dei finanziamenti si sta rivelando drammatico.
A spiegarlo è Claudio Mencacci, co-presidente della Società italiana di NeuroPsicoFarmacologia (Sinpf) e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute mentale Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano: «La pandemia ha creato uno stress senza precedenti sui servizi di Psichiatria, con un aumento enorme delle richieste di prestazioni volte a fronteggiare le conseguenze psichiatriche del Covid. Ma è più appropriato parlare di sindemia: un mix tra pericolo clinico e sociale fatto di malattia, di paura del contagio, della cosiddetta Covid fatigue, di lutti, di crisi socioeconomica. E dell’emersione di una profonda solitudine, soprattutto tra gli anziani».
I numeri e le stime si sprecano: al dato di 830mila pazienti in cura presso i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) fotografato in era pre Covid (ed è appena l’1,6% della popolazione presa in carico, a fronte di un’utenza attesa del 5%), si calcola di dover aggiungere oggi almeno un +30% e nel complesso la sindemia porterà con sé un milione di nuovi casi di disagio mentale.
Ad alto rischio – spiega ancora Mencacci – sono soprattutto le donne, i giovani e gli anziani: le prime perché più predisposte alla depressione e più toccate dalle ripercussioni sociali e lavorative, i secondi che hanno visto modificarsi la vita di relazione e subiscono isolamento e perdita del lavoro, gli anziani perché più fragili davanti al virus, alla depressione e alla solitudine. Ma più in generale l’intera popolazione è scossa dall’incertezza che scombina l’attività principale del cervello: quella previsionale, basata sulle esperienze e sull’algoritmo che per vivere costruiamo nella nostra testa. Poiché siamo animali sociali, abitudinari e programmati come specie a dare risposte molto capaci in emergenza, l’adattamento a questa situazione, prolungato a tempo indefinito, provoca uno svuotamento emotivo
Ecco le indicazioni per l’uso del vaccino Janssen . È stata recepita l’indicazione di Aifa per un uso preferenziale sopra i 60 anni anche se il vaccino resta comunque autorizzato per tutti i soggetti dai 18 anni in su.
Il vaccino Janssen di Johnson&Johnson viene somministrato, in unica dose, a partire dai 18 anni di età. Con Circolare 21 aprile 2021 il Ministero raccomanda un uso preferenziale del vaccino nelle persone di età superiore ai 60 anni.
Nome Janssen Covid-19 Vaccine
Produttore Johnson&Johnson
Tipo di vaccino Vaccino a vettore virale
Efficacia nelle forme gravi arriva fino al 77 % dopo 14 giorni dalla somministrazione e all’85% dopo 28 giorni dalla somministrazione
Data AIC in Europa 11 marzo 2021
Data AIC In Italia 12 marzo 2021
Modalità di somministrazione una iniezione, solitamente nel muscolo della parte superiore del braccio
Il sindacato autonomo pone una serie di perplessità interpretative e applicative della circolare del Ministero delle Salute del 12 aprile 2021: “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata”. Angelo Testa, presidente nazionale Snami: “La parte del testo che recita…”nel caso in cui il lavoratore non possa essere adibito a modalità di lavoro agile, dovrà essere coperto da un certificato di prolungamento della malattia rilasciato dal medico curante ..” è inapplicabile perché non attiene ai compiti del Medico di Medicina Generale sapere se una azienda voglia e possa perseguire per un lavoratore tale possibilità. Di conseguenza il medico non può e non deve certificare”.
“Altro vulnus – aggiunge Gennaro Caiffa, vice segretario nazionale Snami – è il passo…il lavoratore che sia un contatto stretto di un caso positivo, informa il proprio medico curante che rilascia certificazione medica di malattia…E’ chiaro che dovremmo basarci su una semplice dichiarazione di chi potrebbe avere tutto l’interesse a sostenere la tesi del contatto stretto per poter usufruire dell’istituto della malattia. Molto meglio il percorso attuale che prevede sia la sanità pubblica a provvedere ed emanare il provvedimento di quarantena”. “E’ chiaro – conclude Angelo Testa – che si sia stati frettolosi e poco riflessivi nell’emanare una circolare che abbonda di criticità e scarsa applicabilità per cui il tutto va necessariamente rivisitato e corretto secondo principi di applicabilità, rispetto delle norme già in essere e soprattutto con doveroso buon senso”.
La presidente della Commissione Ue Von der Leyen: in futuro necessari richiami per rafforzare la protezione dei vaccinati
a partita contro il coronavirus si gioca ogni giorno di più sul terreno della vaccinazione. È una considerazione diffusa a livello politico e scientifico. Prima sarà immunizzata la fascia più debole e vulnerabile della popolazione, è il ragionamento, e prima si potrà riaprire le attività economiche travolte dalle misure restrittive anti contagi e recuperare alcune delle abitudini di vita che hanno preceduto l’emergenza sanitaria.
Ma quali saranno i vaccini su cui puntare nei prossimi mesi? Delineare uno scenario definitivo non è ancora possibile. Troppe le variabili in gioco. Una tra le tante, la diffusione di nuove varianti, che potrebbero mettere in discussione la copertura garantita dai vaccini in circolazione in quel determinato momento. Considerando tuttavia alcuni elementi emersi negli ultimi giorni, si delineano spazi di crescita per Pfizer/BioNTech, dove la prima è un colosso Usa ma la seconda è una pmi tedesca.
Ceo Pfizer, è probabile una terza dose del vaccino entro 12 mesi
L’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla, secondo quanto riportato da Cnbc, ha detto che le persone avranno «probabilmente» bisogno di una terza dose del vaccino contro il coronavirus entro i 12 mesi dalle prime due. «Noi stiamo programmando di aumentare drasticamente le forniture di vaccini in Europa nelle prossime settimane – ha poi chiarito in un’intervista a Il Corriere della Sera -. In questo trimestre consegneremo oltre quattro volte in più rispetto al primo trimestre: 250 milioni di dosi, dopo averne date 62 fino a marzo. E siamo in discussioni per fare di più».
Ue punta su vaccini a mRna, da 2022 basta Az e J&J
Peraltro per Pfizer-BionTech si delinea la possibilità di guadagnare terreno sulle aziende farmaceutiche produttrici di vaccini concorrenti. La Commissione europea infatti ha deciso di puntare tutto sui vaccini a Rna messaggero. Sono quelli prodotti da Pfizer/BioNTech, Moderna e CureVac. Bruxelles ha annunciato che non rinnoverà nel 2022 i contratti con AstraZeneca e Johnson & Johnson, i cui preparati anti-Covid utilizzano un vettore virale, con una tecnologia più tradizionale. Ad annunciare la scelta strategica a Bruxelles è stata la presidente Ursula von der Leyen, all’indomani dell’annuncio della pausa anche in Europa nella distribuzione del vaccino di Janssen (J&J), dopo che Fda e Cdc negli Usa hanno deciso di mettere in stand by le somministrazioni.
Von der Leyen: in futuro necessari richiami per rafforzare protezione vaccinati
In futuro, ha spiegato von der Leyen, in Europa serviranno «richiami» per rafforzare la protezione dei vaccinati. E, se si svilupperanno «varianti resistenti» ai vaccini, «dovremo sviluppare vaccini adattati» alle nuove mutazioni, «presto e in quantità sufficienti. Tenendo questo a mente, dobbiamo focalizzarci sulle tecnologie che hanno dimostrato il loro valore: i vaccini a Rna messaggero sono un caso chiaro». Quello che von der Leyen ha lasciato solo intuire, è stato espresso in maniera esplicita dall’eurodeputato della Cdu tedesca Peter Liese, portavoce per la Salute del gruppo Ppe: «La Commissione – ha detto il parlamentare, che è medico – in futuro non comprerà più vaccini da Johnson & Johnson e AstraZeneca, ma si affiderà ai vaccini a m-Rna di BioNTech/Pfizer, Moderna e CureVac per combattere nel lungo termine la pandemia».
Al via la trattativa Commissione Ue – Pfizer per terzo contratto
La Commissione, ha spiegato von der Leyen confermando le indiscrezioni che circolano da giorni a Bruxelles, «sta entrando in un negoziato con Pfizer/BioNTech per un terzo contratto», che prevedrà «la consegna di 1,8 miliardi di dosi nel corso del periodo 2021-2023». Il contratto, che l’esecutivo Ue intende finalizzare «presto», prevedrà non solo la produzione nell’Ue dei vaccini, ma anche quella dei componenti di base. Un chiaro riconoscimento del carattere strategico della produzione di vaccini sul suolo europeo, dopo la lezione impartita all’Ue, che nella prima ondata della pandemia dovette scongiurare l’India di non lasciarla senza paracetamolo, dalla vicenda di AstraZeneca, la multinazionale anglosvedese che consegna vaccini al Regno Unito, ma continua a tagliare le dosi destinate all’Ue. Tanto da costringere la Commissione ad avviare formalmente il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dall’accordo di acquisto anticipato.
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