FallCall Detect, é una tecnologia nata per rilevare la gravità delle cadute mediante una analisi combinata dei dati mediante intelligenza artificiale. Nata come un supporto alla gestione delle cadute degli anziani può rappresentare un ulteriore evoluzione dei sistemi di rilevamento del lavoro in solitario.
Da 001health.it
FallCall Solutions rilascerà FallCall Detect, tecnologia brevettata che combina il rilevamento intelligente delle cadute con un sistema completo di risposta alle emergenze personali (PERS).
Non tutte le cadute richiedono l’intervento di un medico, eppure i sistemi standard di rilevamento delle cadute spesso fanno scattare l’allarme di emergenza ogni volta che viene rilevata una caduta.
La tecnologia di FallCall Detect distingue tra le cadute con maggiore forza che hanno maggiori probabilità di causare lesioni e le cadute che avvengono da seduti.
Se viene rilevata una caduta ad alto impatto, il servizio di monitoraggio medico di FallCall viene automaticamente contattato e, se necessario, invierà i servizi di emergenza. Se viene rilevata una caduta a basso impatto, viene contattata solo la comunità di supporto predesignata dall’utente.
Un’app per Apple Watch
Disponibile come applicazione per Apple Watch, FallCall Detect permette agli anziani una maggiore libertà e la sicurezza di vivere uno stile di vita indipendente e attivo, sapendo che riceveranno un aiuto immediato in caso di caduta. Possono anche stare tranquilli sapendo che le possibilità di attivare inutili attivazioni di servizi di emergenza sono ridotte.
Secondo il Consiglio nazionale sull’invecchiamento, le cadute sono la principale causa di mortalità per gli anziani, con un morto per caduta ogni 19 minuti. FallCall Solutions, che è stata fondata da medici specializzati in traumatologia che hanno curato migliaia di vittime di cadute, ha l’obiettivo di ridurre radicalmente questo numero. L’azienda mira a sfruttare la crescente adozione della tecnologia intelligente da parte degli anziani per incoraggiare un maggiore utilizzo dei servizi di allerta medica.
“Diversi anziani che ho curato per le cadute possedevano un dispositivo di allarme medico ma non lo hanno utilizzato. Hanno detto che era troppo ingombrante, stigmatizzante o scomodo, e hanno sperimentato falsi allarmi imbarazzanti – dice il co-fondatore di FallCall Solutions, il dottor Shea Gregg –. Offrendo una tecnologia semplice, sicura e intelligente combinata con le funzionalità PERS su un Apple Watch, crediamo che avremo un’adozione molto maggiore, un uso quotidiano e un trattamento più precoce delle lesioni da caduta“.
FallCall Detect si connette all’applicazione di assistenza per le emergenze della piattaforma FallCall Solution che fornisce una comunità di supporto agli utenti con avvisi per le cadute, indicando la posizione e la frequenza cardiaca. Offre anche indicazioni sugli aggiornamenti della batteria e si abbina al servizio di monitoraggio medico di FallCall a prezzi accessibili. Una volta attivato, gli utenti ricevono il rilevamento non invasivo e on-demand delle cadute con l’attivazione e la disattivazione della risposta di emergenza a un tocco, oltre alla possibilità di utilizzare comandi vocali su Apple Watch e iPhone.
“Il rilevamento intelligente differenziato delle cadute è solo l’inizio per FallCall Solutions –afferma il Dr. Gregg –. Nel prossimo futuro arriveranno sulla nostra piattaforma il rilevamento personalizzato delle cadute basato sull’IA, l’apprendimento del movimento delle cadute nel cloud e la previsione del rischio di cadute notturne“.
Gli attuali utenti di FallCall Lite e coloro che si iscrivono su smartfalldetection.com riceveranno un invito esclusivo per scaricare la versione beta di FallCall Detect e installarla sul loro Apple Watch.
In Olanda la «sfera magica» che elimina il Covid dai luoghi pubblici
Si chiama Urban Sun ed è un’installazione che emette raggi UV da 222nm, innocui per l’uomo ma micidiali per il coronavirus. Restituendoci vie e piazze
di Enrico Marro
Le torri che mangiano lo smog, l’aquilone che produce energia green, la pista ciclabile luminosa che si ricarica con il sole. E ancora: il ponte sulla diga che si accende con i fari delle auto, oppure il tracciamento di ottomila tonnellate di rifiuti spaziali progettato assieme all’Ente spaziale europeo e alla Nasa. Non è facile trovare una definizione per Daan Roosegaarde. Pluripremiato architetto, designer, scienziato e artista, il “Leonardo olandese” da ilsole24ore.
Si tratta di un’installazione sospesa che emana raggi ultravioletti Uvc ricalibrati secondo le linee guide della Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti. In questo modo non causa danni a occhi e pelle, ma è in grado di debellare i virus, tra cui anche il Covid19. Si tratterebbe quindi di una rivoluzione.
“L’installazione luminosa dovrebbe essere una difesa ulteriore contro la diffusione di virus durante eventi, nelle scuole, nei musei, nelle stazioni ferroviarie, in tutti gli spazi pubblici.
Non posso ancora dire se l’utilizzo di Urban Sun permetterà effettivamente alle persone di ri-abbracciarsi. Questo dipenderà dalle disposizioni dei governi. Non vuole certamente essere un’alternativa ai vaccini o alle mascherine, ma una delle misure contro il Covid-19. Sicuramente può rendere uno spazio più pulito e privo di virus. La Boeing, per esempio, utilizzerà questa tecnologia negli aeromobili”.
L’idea, come spiega il designer, è nata nel 2018, in tempi non ancora sospetti:
“Lessi sulla rivista Nature che le radiazioni ultraviolette a onda corta (Uvc) fossero un disinfettante efficace in grado di neutralizzare virus e batteri. Ma è risaputo che le lampade Uvc comunemente disponibili possono essere cancerogene e dannose per la pelle e gli occhi. Così ho creato un team insieme alla Columbia University (Radiogical research medical center) composto da designer, tecnici, scienziati ed esperti di virus per approfondire il tema e fare ricerche sull’applicazione di questa luce che già si usa da tempo nelle sale operatorie, ma, appunto, può provocare scottature ed è cancerogena.
La “ricetta” raggiante che abbiamo applicato al progetto Urban Sun è proprio l’utilizzo di “nuovi” Uvc 222 nm, ovvero che arrivano da una distanza non pericolosa, nel pieno rispetto delle linee guida dell’Icrnirp.
Gli scienziati hanno dimostrato che questi Uvc riveduti e alleggeriti con lunghezze d’onda inferiori non possono penetrare nella pelle umana o negli occhi ma possono uccidere i virus”.
DAAN ROOSEGAARDE PROGETTI – GROW:
Tra gli altri progetti di Daan Roosegaarde indichiamo: la torre che mangia lo smog, la pista ciclabile luminosa che si carica con il sole, l’aquilone che produce energia pulita e Grow. Quest’ultimo è un sistema più sostenibile di produrre cibo che migliorerà passo dopo passo.
DAAN ROOSEGAARDE IN ITALIA – LIQUID LANDSCAPE:
E’ gia in lista la realizzazione di un progetto nel nostro paese. Si tratta di Liquid Landscape in Trentino Alto Adige e verrà realizzato nel contesto magnifico di Arte Sella, in Valsugana.
“Un percorso di scambio circolare, un processo creativo in cui l’opera di ogni artista prende forma giorno per giorno sul luogo, cogliendo dalla natura stessa materiali e ispirazioni. Nella grande maggioranza dei casi, infatti, le opere sono ottenute attraverso l’uso esclusivo di materiali naturali come foglie, rami, legno, sassi e così via. Liquid Landscape, come si intuisce dal nome, sarà composto dall’acqua e altri elementi naturali come l’erba e la terra, ma di più non posso svelare”.
CHI È DAAN ROOSEGAARDE?
Daan ha fondato il suo studio nel 2007. E’ un’artista, architetto, designer, inventore, ma come afferma lui stesso non ama definirsi architetto perché nonostante sia sempre proiettato verso il futuro, considera la tecnologia “solo uno strumento per fare emergere la poesia” con acqua, energia e aria puliti come valori del futuro.
Inoltre, secondo Forbes e Wired il nome Roosegaarde è tra quelli degli innovatori del nostro tempo. E’ infatti uno dei leader globali del World Economic Forum nonché membro del Nasa Innovation team.
Da https://www.mam-e.it/design/urban-sun-prototipo-anti-virus-roosegaarde-debellera-il-covid/
Grande innovazione scientifica, comunicazione commerciale ingannevole o semplice versione di lusso della più standard delle mascherine? Sulle ormai celebri U-Mask, e in particolare sul cosiddetto Model 2 prodotto dalla londinese U-Earth Biotech (che ha una filiale anche a Milano), la situazione appare piuttosto confusa, tra inchieste giornalistiche, verifiche indipendenti, dichiarazioni dell’azienda ed esternazioni della concorrenza. L’ultimo punto fermo, almeno in ordine cronologico, è quello messo nero su bianco sabato 20 febbraio dal nostro ministero della Salute, che ne ha disposto il ritiro dal commercio e il divieto di vendita. Al momento, quindi, le U-Mask non si possono più acquistare in Italia. Ma partiamo dall’inizio.
Una mascherina biotecnologica?
Sul sito dell’azienda è scritto a caratteri cubitali: U-Mask Model 2 sarebbe “la prima mascherina biotech” sul mercato. Da quanto è stato pubblicamente dichiarato online, la mascherina consisterebbe nella sovrapposizione di ben 5 strati diversi: uno esterno in nylon riciclato, poi due strati in tessuto non tessuto disposti a sandwich con nel mezzo un sistema di “nanofiltrazione” e infine un “bio-layer”, che costituirebbe il cuore biotecnologico dell’innovazione. In pratica, si legge, lo strato biotech sarebbe “auto-sanificante”, grazie a una tecnologia “naturale e atossica” basata su “una molecola in grado di inibire la crescita di batteri e microbi”, un “principio attivo naturale” capace di “ridurre la carica batterica ed efficace contro i batteri Gram positivi e Gram negativi”, tanto da “distruggerli al suo interno”.
(immagine: U-Mask)
Va detto, però, che di tutte queste affermazioni manca una validazione scientifica. Non esiste alcuna pubblicazione (con o senza peer review) a cui fare riferimento, si parla di un “brevetto richiesto” (pending patent) e tutto quello che si può vedere dal sito sono alcune immagini al microscopio, animazioni evocative e fotografie comparative di colture batteriche dentro a delle piastre di Petri. C’è un riferimento ai test di filtraggio – su cui torniamo più sotto – ma nulla che dimostri o certifichi le capacità biotech raccontate. Prendendo in prestito le parole usate da Altroconsumo, “giocando su immagini e parole mutuate dalla scienza, dà la sensazione a molti consumatori che la U-Mask abbia delle qualità speciali”.
Anche tralasciando il dettaglio che la comunicazione è centrata sui batteri e non sui virus, sulla solidità scientifica di tutte le affermazioni non si può che sospendere il giudizio. D’altronde, oltre ai paper mancano anche le documentazioni dei brevetti, non è noto di quale molecola attiva“naturale e atossica” si stia parlando, né quale sia la miscela polimerica che contiene il principio attivo, né sono fornite quantificazioni (nemmeno da parte dell’azienda stessa) di quanto sia efficace questo effetto distruttivo sui batteri. Insomma, c’è un grossissimo punto interrogativo.
La spinosa questione delle autorizzazioni
Paper o non paper pubblicati sulle riviste scientifiche, come sappiamo in Italia la vendita di dispositivi di protezione individuale e di dispositivi medici è regolata da specifiche autorizzazioni e certificazioni. Anche se la procedura per le mascherine è stata snellita per far fronte all’emergenza sanitaria, è comunque necessaria una certificazione da parte di un laboratorio, che a sua volta deve essere autorizzato a rilasciarla (il che parrebbe ovvio). Infine, occorre la registrazione e il via libera da parte del ministero della Salute. Per le mascherine, si tratta in sostanza di valutarne la capacità filtrante, e di appurare che nel complesso l’oggetto non ponga rischi per la salute.
Nel caso specifico delle U-Mask, ciò che ha portato al divieto di vendita è il mancato accreditamento del laboratorio Clodia di Bolzano che ha certificato l’efficacia delle mascherine. Secondo quanto appurato dal Nucleo antisofisticazione e sanità (Nas) dei Carabinieri di Trento, il laboratorio presso cui i test sono stati svolti è privo di autorizzazione per svolgere la pratica. E poi la persona titolare del laboratorio che ha firmato il documento risulterebbe “priva dei prescritti titoli abilitativi”, ossia in pratica sprovvista della necessaria laurea.
Sui giornali si è parlato molto del fatto che il ministero della Salute abbia aggiunto che indossando le U-Mask potrebbero esserci “potenziali rilevanti rischi per la salute”, ma questa frase va contestualizzata. Se si considera non valido il test di efficacia e sicurezza eseguito, visto che siamo in “assenza di un regolare processo valutativo”, va concluso che né l’efficacia né la sicurezza stesse possono essere date per buone, dunque in generale (ragionando all’opposto) le U-Mask potrebbero essere anche inefficaci e insicure. Una eventuale fonte di rischio potrebbe derivare dall’effetto illusorio di una protezione: se le mascherine fossero non efficaci, infatti, indossarle credendo che funzionino vorrebbe dire esporsi inconsapevolmente a una probabilità di contagio più alta di quella che ci si aspetta.
Inoltre, pure ipotizzando che il problema della mancata autorizzazione del laboratorio non ci sia, la registrazione delle U-Mask è sempre stata come dispositivo medico di classe 1. E non come dispositivo di protezione individuale. Ciò significa, tra le altre cose, che ha una durata massima di utilizzo molto limitata, mentre l’azienda dichiara “risultati garantiti fino a 200 ore di utilizzo efficace”. Per intenderci, è un dispositivo medico di classe 1 una mascherina chirurgica monouso.
Quanto sono efficaci le U-Mask?
La risposta più semplice, e anche la più onesta, è che non si sa. L’azienda ha dichiarato una capacità di filtrazione batterica sia in ingresso sia in uscita del 99%, tanto da paragonarle (impropriamente) a una mascherina Ffp3. Il test – a questo punto invalidato – con cui si era ottenuta la certificazione arrivava al 99%, quelli eseguiti dall’azienda a febbraio arrivano almeno al 99,6% sia verso l’interno sia verso l’esterno. Secondo i test indipendenti di Altroconsumo siamo al 98%, o al 97% dopo i lavaggi. Secondo l’inchiesta di Striscia la notizia che ha aperto il vaso di Pandora siamo sotto al 95%, e per un’azienda concorrente che dichiara di aver testato una mascherina saremmotra il 70% e l’80%. Insomma, che ci sia una certa capacità filtrante è fuori discussione (ma d’altronde quella si ha pure con mascherine chirurgiche da 50 centesimi l’una, 67 volte meno care delle U-Mask), ma sulla quantificazione esatta resta molta incertezza.
(foto: Vera Davidova/Unsplash)
In ogni caso il metodo generale è piuttosto chiaro: l’efficacia ufficiale è quella certificata da un laboratorio autorizzato, e in questo momento una misura svolta con tutti i crismi non c’è. Avrebbe poco senso affidarsi alle dichiarazioni dell’una o dell’altra azienda, e le indagini giornalistiche indipendenti hanno il merito di aver sollevato il problema ma non possono certo essere usate come quantificazione ufficiale.
Comunicazione ingannevole?
Secondo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato Agcm, che si è espressa lo scorso 15 febbraio, nella comunicazione di U-Earth Biotech “verrebbe enfatizzata l’efficacia [delle mascherine] con modalità ingannevoli e aggressive“, per diverse ragioni. Un primo punto è la già citata questione biotecnologica, mai dimostrata o verificata. E a questo si aggiunge il claim di poter utilizzare ogni singolo filtro “fino a 200 ore o per un anno”, sempre non dimostrato e incompatibile con un dispositivo medico di classe 1.
La stessa Agcm ha ravvisato una scorrettezza pure nell’affermazione secondo cui “U-Mask ha un’efficienza superiore, paragonabile a una Ffp3″: proprio perché le mascherine Ffp3 sono dispositivi di protezione individuale, come già detto, il paragone sarebbe insostenibile. Insomma, la U-Mask dovrebbe semmai essere confrontata con le mascherine chirurgiche, anziché con le Ffp. E infine, su questioni più strettamente commerciali, è stata contestata a U-Earth Biotech una comunicazione ambigua riguardo al diritto di recesso.
Da “mascherina vip” a “mascherina indagata”
Diventate celebri grazie all’uso diffuso presso politici, celebrità e sportivi in oltre 110 paesi nel mondo, ora in Italia le U-Mask sono finite al centro di diverse vicende giudiziarie. Il primo passaggio era stato, a gennaio, il sequestro della procura di Milano in diverse farmacie di alcune mascherine, per poterne verificare la capacità di filtraggio. Un’indagine della procura che prosegue tuttora, e che è stata affidata al pubblico ministero Maura Ripamonti e al procuratore aggiunto Eugenio Fusco con l’ipotesi di frode nell’esercizio del commercio.
Oltre ai Nas di Trento, si è attivata anche la Guardia di finanza, in un’indagine che potrebbe acquisire respiro internazionale visto che la sede della casa madre dell’azienda è nel Regno Unito. In una nota stampa pubblicata il 20 febbraio, l’azienda si è detta “esterrefatta” dal provvedimento cautelare. “Difenderemo in ogni sede la qualità dei nostri prodotti, la reputazione e l’operato della nostra azienda”, si legge, “certi delle nostre ragioni e della trasparenza della nostra condotta
Sarà “obbligatoria” la vaccinazione anti-coronavirus19 per gli operatori sanitari allo scopo di prevenire e controllare la trasmissione della infezione.
Lo ha deciso il Consiglio regionale con 28 voti favorevoli. La proposta di legge presentata dal presidente della I Commissione, Fabiano Amati, è in coerenza con le disposizioni di sicurezza previste dalla legge regionale 19 del 2018 e del successivo regolamento attuativo, in materia di prevenzione e controllo della trasmissione delle infezioni con particolare riferimento all’epatite B, morbillo, parotite, rosolia, varicella, difterite, tetano, pertosse, influenzae tubercolosi.
Molti parlano di “obbligo vaccinale per gli operatori sanitari”, ma non è esattamente così. Solo una legge Statale potrebbe imporre la vaccinazione. La legge pugliese, presentata da fabiano Amati (Pd), si limita a vietare l’accesso ad alcuni reparti più delicati agli operatori non vaccinati contro il Covid, estendendo al covid quanto già previsto nella legge regionale 27/2018 per altre malattie. Nulla escludere la possibilità degli operatori di rifiutare la vaccinazione e richiedere, eventualmente, un cambio di reparto. LA LEGGE E GLI EMENDAMENTI
Un segnale d’allarme è scattato dopo che 12 MEDICI sono risultati positivi a seguito del secondo richiamo di Pfizer. E sembra esserci, all’ombra dei contagi, l’ombra della variante inglese classificata come VOC 202012/01.
Sui dodici medici positivi, dopo il richiamo, sono ancora in corso accertamenti, si legge su Repubblica. I campioni delle loro analisi saranno determinanti per stabilire, scientificamente, come il virus abbia superato lo “scudo” del vaccino. Nello specifico, su un campione di 4 sanitari contagiati dopo l’antidoto, sta conducendo un’analisi la Società italiana di malattie infettive.”Contagiarsi, anche dopo avere ricevuto la seconda somministrazione, non significa automaticamente che il vaccino è stato poco efficace“, ha spiegato il direttore scientifico Massimo Andreoni, virologo del Policlinico Tor Vergata. “In tutti i casi che abbiamo preso in esame finora, ci siamo trovati davanti a persone completamente asintomatiche“.
Il direttore della UOC Malattie Infettive al Policlinico Tor Vergata di Roma ha, infatti, offerto un quadro della situazione in cui si evince come tutti gli scenari siano, in un certo senso, sotto il controllo della medicina e della scienza.Una spiegazione dei temi più attuali che contribuisce a spegnere diversi allarmismi verso quella che è e resta l’arma più efficace contro il virus: appunto la vaccinazione. Nessun allarmismo quindi, riguardo al fatto che alcuni sanitari abbiano avuto positività al coronavirus dopo essere stati vaccinati.
“Il vaccino, ha precisato l’infettivologo, non è che ci crea uno scudo per cui il virus non entra più dentro di noi. Il virus entra dentro di noi, fa pochissime replicazioni perché, a quel punto, viene bloccato dagli anticorpi che si sono formati grazie alla vaccinazione. Il virus entra di noi e fa qualche piccola replicazione. Se noi andiamo a fare il tampone in queste persone, in quel momento, troviamo delle positività che però non hanno nessuna rilevanza nei confronti della malattia, sono tutte persone che non la sviluppano. E molto probabilmente, su questo uso il condizionale perché abbiamo bisogno di dati, non sono persone che sono in grado di infettare proprio perché, avendo poche replicazioni, il virus non riesce a raggiungere quelle quantità tali da poter essere trasmesso“. Da meteo.it
Obiettivo del nuovo bando dell’Istituto, pubblicato oggi in Gazzetta ufficiale, è la realizzazione di azioni di sensibilizzazione dei soggetti coinvolti nel sistema di prevenzione, con particolare riferimento agli aspetti legati alla individuazione, valutazione e controllo dei rischi infortunistici
ROMA – Realizzare una campagna nazionale che consenta la più capillare diffusione delle informazioni in materia di salute e sicurezza tra lavoratori, datori di lavoro, dirigenti, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza a livello aziendale (Rls) e territoriale (Rlst), responsabili del servizio protezione e prevenzione (Rspp), addetti del servizio protezione e prevenzione (Aspp) e medici competenti. È questo l’obiettivo del bando pubblicato oggi in Gazzetta ufficiale, con cui l’Inail mette a disposizione quattro milioni di euro per sostenere progetti di interesse tecnico-scientifico riferiti a specifici ambiti lavorativi e aree tematiche, con particolare riferimento agli aspetti legati alla individuazione, valutazione e controllo dei rischi.
Bettoni: “È un tassello importante della strategia per il rafforzamento della prevenzione”. “Questa campagna – spiega il presidente dell’Istituto, Franco Bettoni – rappresenta un altro importante tassello della nostra strategia per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, che comprende anche i progetti per la formazione nelle micro, piccole e medie imprese, avviati nel 2019 grazie al bando finanziato con quasi 15 milioni di euro dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, e le ultime edizioni del bando Isi e del bando Isi Agricoltura, per le quali sono stati stanziati complessivamente 276 milioni di euro a favore delle aziende che hanno scelto di investire in prevenzione”.
“Le tipologie di intervento selezionate sulla base di studi, dati ed evidenze pubbliche”. “Per la predisposizione dei progetti che saranno finanziati con il bando pubblicato oggi – precisa Bettoni – abbiamo selezionato diverse tipologie di interventi informativi sulla base di studi, ricerche, evidenze pubbliche, dati statistici su infortuni e malattie professionali, a partire dalle azioni di sensibilizzazione sui rischi negli ambienti di lavoro, di tipo complesso e trasversale, nei settori produttivi in cui risultano più presenti”.
Rotoli: “Un sostegno concreto per aumentare l’efficacia degli interventi sul campo”. Come sottolineato da Ester Rotoli, direttore centrale Prevenzione dell’Inail, “questa nuova iniziativa nasce dalla volontà dell’Istituto di fornire un sostegno concreto alla rete dei soggetti qualificati a sviluppare sul campo attività a carattere prevenzionale, allo scopo di garantire la più ampia copertura e diffusione possibile delle informazioni e conoscenze sui rischi. Per essere davvero efficace, infatti, la strategia per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali richiede la responsabilizzazione e il coinvolgimento diretto di tutti i protagonisti del nostro sistema produttivo”.
Dagli ambienti confinati alle molestie individuati alcuni temi specifici. I temi specifici individuati dal bando riguardano gli ambienti confinati o sospetti di inquinamento, all’origine di molti casi mortali, le attività di manutenzione, che interessano numerosi settori e processi lavorativi, la gestione delle interferenze che derivano dalla presenza di operatori di aziende diverse nello stesso luogo di lavoro, gli infortuni su strada, incluse le modalità da adottare in caso di incidenti che coinvolgano sostanze pericolose, fino alla violenza e alle molestie, ovvero l’insieme di pratiche e comportamenti inaccettabili che possono causare a lavoratrici e lavoratori un grave danno fisico, psicologico, sessuale o economico.
I fondi destinati a organismi paritetici, patronati, sindacati e organizzazioni datoriali. Destinatari dei fondi sono gli organismi paritetici, le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, gli enti di patronato nazionali e quelli costituiti dalle confederazioni e associazioni che operano esclusivamente nelle Province autonome di Trento e Bolzano, che potranno partecipare al bando singolarmente o in aggregazione. Ciascun soggetto, singolo o in aggregazione, non potrà però presentare più di una domanda.
Per ciascun progetto ammesso al finanziamento un contributo fino a 500mila euro. A ogni progetto di informazione ammesso al finanziamento sarà riconosciuto un contributo, variabile in funzione del numero dei partecipanti e delle ore in cui si articola, di importo complessivo compreso tra un minimo di 18mila e un massimo di 500mila euro. Unica eccezione le iniziative promosse dai patronati che operano nelle province autonome di Trento e di Bolzano, per le quali l’importo minimo è pari a tremila euro.
Lo svolgimento delle singole iniziative regionali potrà avvenire sia in presenza sia in remoto. Il bando prevede, inoltre, che ciascun progetto sia composto da un insieme di singole iniziative regionali, anche diverse tra loro, sviluppate in almeno sei regioni, attuate sia in presenza sia in remoto (in modalità sincrona) e destinate ad almeno 50 partecipanti, con una durata minima di quattro ore. Il vincolo delle sei regioni non si applica ai progetti presentati dai patronati costituiti dalle confederazioni e associazioni operanti nelle Province di Trento e Bolzano, che potranno essere articolati in una o più iniziative provinciali, nel limite del territorio di rispettiva competenza. I progetti, inoltre, non devono prevedere oneri a carico dei soggetti destinatari delle attività di informazione.
Entro il 30 aprile le date di apertura e chiusura della procedura informatica. Per l’inoltro delle domande, corredate di tutte le autodichiarazioni richieste, sarà reso disponibile un servizio applicativo a cui si accederà sul sito dell’Inail tramite il Sistema pubblico di identità digitale (Spid). Ciò consentirà di favorire la più ampia partecipazione al bando e semplificare l’attività di verifica tecnica e amministrativa propedeutica alla concessione dei finanziamenti, che saranno assegnati fino a esaurimento delle risorse disponibili, secondo l’ordine cronologico di presentazione delle domande, riducendo sensibilmente i tempi complessivi di esecuzione. Le date di apertura e chiusura della procedura informatica saranno pubblicate sul portale istituzionale entro il prossimo 30 aprile.
Avviso pubblico informazione per la prevenzione 2020L’Inail, con l’obiettivo di realizzare una campagna informativa nazionale riguardante la promozione e lo sviluppo della cultura in materia di salute e sicurezza sul lavoro, pubblica il presente avviso per la realizzazione di interventi informativi, con particolare riguardo alle azioni di sensibilizzazione sui rischi infortunistici di tipo complesso e trasversale nei settori produttivi in cui risultano maggiormente presenti.
I tumori maligni naso-sinusali (ICD-10: C30-C31; ICD-9:160) sono tumori rari con incidenza annuale in Italia di circa 1 per 100.000 (tasso standardizzato per età, su popolazione europea: 0,8 negli uomini e 0,3 nelle donne nel periodo 2005-09) (1). Rappresentano meno dell’1% di tutti i tumori e meno del 4% di tutti i tumori maligni della testa e del collo (2).
A fronte della bassa incidenza nella popolazione generale, si osserva invece una rilevante frazione di casi in popolazioni lavorative esposte a specifici agenti causali, identificando i tumori naso-sinusali (TuNS) di tipo epiteliale come neoplasia con maggiore quota di casi di origine professionale, dopo il mesotelioma maligno indotto da esposizione ad amianto.
Sulla base delle evidenze disponibili, l’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro ha valutato alcuni agenti o circostanze di esposizione con evidenza certa o limitata di cancerogenicità per l’uomo (gruppi 1 e 2A) per la sede TuNS: la produzione di alcol isopropilico, i composti del nichel, il fumo di tabacco, il radio 226- e 228 e i prodotti del loro decadimento, le polveri di cuoio e le polveri di legno, le attività di carpenteria e falegnameria, i composti del cromo esavalente, la formaldeide e le lavorazioni tessili (3).
In attuazione di quanto previsto dall’art. 244 del DLvo 81/2008, presso l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), Dipartimento di Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro e Ambientale, è attivo il Registro Nazionale dei Tumori Naso-Sinusali (ReNaTuNS) (4). Il ReNaTuNS stima l’incidenza dei casi di TuNS in Italia, raccoglie le informazioni sulla pregressa esposizione ad agenti correlati al rischio di TuNS e rappresenta quindi una base informativa per studi analitici di epidemiologia occupazionale e per la definizione di informazioni relative all’esposizione a fini preventivi e medico-assicurativi. Obiettivo del presente articolo è descrivere le attività del ReNaTuNS, riferendo i dati aggregati acquisiti dalle esperienze di sorveglianza in corso.
Materiali e metodi
L’architettura del ReNaTuNS si basa sui Centri Operativi Regionali (COR), istituiti in analogia a quelli già da tempo sperimentati in Italia ai fini del Registro Nazionale Mesoteliomi (5). Attualmente sono attivi e hanno trasmesso i dati al ReNaTuNS, i registri regionali dei TuNS del Piemonte, Lombardia, Provincia Autonoma di Trento, Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Lazio. Recentemente è stato istituito il registro nella Provincia Autonoma di Bolzano e sono in corso esperienze di sperimentazione in Sardegna, Campania e Puglia.
Il ReNaTuNS ha registrato una selezione di tutti i tipi di tumore maligno primitivo delle fosse nasali e dei seni paranasali, con diagnosi certa o probabile, dal 1989 al 2012. La definizione dell’esposizione si basa sulla raccolta dettagliata della storia lavorativa, extralavorativa e degli stili di vita del caso segnalato, sulla codifica del settore lavorativo e della mansione, e sulla revisione delle informazioni raccolte e la loro traduzione in termini di esposizione da parte degli esperti igienisti industriali (6).
Risultati
L’archivio del ReNaTunS comprende, a dicembre del 2012, informazioni relative a 1.352 casi di TuNS. Il 79% dei soggetti ha un’età compresa tra 55 e 84 anni. L’età media alla diagnosi è di 66,2 anni senza differenze apprezzabili per genere (66,5 anni nelle donne e 66,1 negli uomini). Il rapporto di genere (U/D) è pari a 2,7. Il 73,4% dei 1.352 casi archiviati è di genere maschile (n. 992), mentre il 26,6% è di genere femminile (n. 360). Nell’intero archivio i casi con una diagnosi di TuNS certo sono il 98,6%. Le sedi anatomiche delle lesioni più frequenti sono le cavità nasali (41,6%), il seno etmoidale (20,6%) e il seno mascellare (16,8%). Le morfologie più diffuse sono i carcinomi a cellule squamose (34,3%) e gli adenocarcinomi di tipo intestinale (21%) (Tabella). Il tasso medio di incidenza nel periodo 2010-11 è 0,86 (casi per 100.000) negli uomini e 0,31 nelle donne. L’esposizione è stata definita per 900 casi (66,6% del totale). Nell’insieme dei casi con esposizione definita il 67% presenta un’esposizione professionale, lo 0,9% familiare, il 3,6% per un’attività extra lavorativa di svago o hobby. Per il 28,5% dei casi l’esposizione è improbabile o ignota (Tabella). Gli agenti cancerogeni più frequenti sono le polveri di legno (49,4% dei periodi di esposizione lavorativa definiti per agente) e di cuoio (39,6%), seguiti da solventi (11,4%), cromo (4,9%) e formaldeide (4,5%). I settori di attività maggiormente coinvolti nell’esposizione a polveri di legno sono la fabbricazione di mobili in legno e di serramenti in legno. Per quanto riguarda le polveri di cuoio, i settori prevalenti riguardano la produzione di calzature.Ingrandisci la tabella Rimpicciolire la tabella
Discussione
Il sistema di sorveglianza epidemiologica dei casi incidenti di TuNS con metodi di ricerca attiva e di analisi standardizzata delle storie professionali, residenziali e familiari dei soggetti ammalati è di particolare rilevanza in Italia, dove il numero di esposti ai fattori di rischio è piuttosto elevato (in molti casi con scarsa consapevolezza). I tassi di incidenza negli uomini sono quasi tre volte quelli delle donne, probabilmente a causa delle differenze nelle pregresse esposizioni a cancerogeni. Si è osservato che i tumori nasali originano prevalentemente nelle cavità nasali, e con meno frequenza nei seni etmoidale e mascellare. La morfologia più frequente è il carcinoma a cellule squamose. Questi risultati sono in linea con le stime riportate da altri studi (7). La percentuale di esposti professionalmente sul totale dei soggetti con esposizione definita è quasi il 75% negli uomini e più del 40% nelle donne (Tabella), valori non trascurabili anche in queste ultime, che sottolineano l’importanza di approfondire la storia espositiva dei casi di TuNS. Sono state identificate esposizioni significative per i lavoratori nei settori della lavorazione del legno e delle pelli, ma anche in altri ambiti occupazionali inattesi. I risultati suggeriscono infine l’approfondimento dei casi con esposizione definita “ignota”, al fine di identificare fattori di rischio misconosciuti o non valutati e proporre nuove ipotesi eziologiche. Tuttavia rimangono aperte numerose questioni critiche. Una rilevante parte di territorio nazionale a oggi non dispone del registro, e la capacità di analisi epidemiologica dei dati aggregati e la dimensione degli approfondimenti di ricerca a partire dai dati nazionali è ancora limitata. È auspicabile che la ricerca attiva dei casi di TuNS e l’analisi dell’esposizione diventino un’attività sistematica e coordinata, uno strumento fondamentale per la prevenzione della malattia, la tutela dei diritti dei soggetti ammalati e dei loro familiari e la corretta gestione delle risorsedi sanità pubblica.
Lo afferma una ricerca del Mount Sinai Health System pubblicata sul Journal of Medical Internet Research. L’indicatore chiave è la variabilità della frequenza cardiaca.
La fonte è autorevole: nel Journal of Medical Internet Research, un’istituzione nel campo dell’informatica medica, si legge che l’Apple Watch può aiutare a rilevare il coronavirus fino a una settimana prima dei classici tamponi molecolari. È l’esito a cui è giunto uno studio condotto nei mesi scorsi da un team di ricercatori del Mount Sinai Health System, network di otto ospedali dell’area di New York, e pubblicato a gennaio proprio dall’autorevole rivista canadese. Com’è possibile? Semplice: attraverso l’accurato monitoraggio del battito cardiaco che l’orologio hi-tech della Mela è in grado di offrire ai suoi utilizzatori.
L’indicatore chiave del dispositivo
Come si legge nel paper, la ricerca – del tutto indipendente da Cupertino – è stata condotta su 297 operatori sanitari che hanno indossato un Apple Watch Series 4 o Series 5 tra il 29 aprile e il 29 settembre. A tutti è stato chiesto di compilare un sondaggio giornaliero sul proprio stato di salute per tenere traccia dell’insorgere di eventuali sintomi, e come prevedibile alcuni di essi (13, per la precisione) sono risultati positivi al virus proprio nel periodo di osservazione. Ebbene, una volta incrociati i dati dei loro Apple Watch con quelli dei partecipanti rimasti negativi, ad attirare l’attenzione dei ricercatori è stato un indicatore su tutti: quello relativo alla variabilità della frequenza cardiaca (ossia il tempo che intercorre tra un battito e l’altro, metrica chiave per valutare il buono o cattivo funzionamento del sistema nervoso). Questo perché i valori dei soggetti positivi si sono dimostrati significativamente inferiori rispetto a quelli dei negativi. Un esito effettivamente in linea con le conseguenze del Covid-19: «Sapevamo già che i marker di variabilità della frequenza cardiaca cambiano quando un’infiammazione si sviluppa nel corpo – ha spiegato alla Cbs Rob Hirten –, e il Covid è un evento incredibilmente infiammatorio. Questo ci permette di inferire che le persone sono infette prima ancora che lo sappiano».
L’allerta fino a 7 giorni prima della conferma del contagio
A ben vedere, proprio quest’ultimo è il punto più sorprendente dello studio. Come accennato, infatti, «cambiamenti significativi» nella variabilità della frequenza cardiaca sono stati registrati «fino a 7 giorni prima» dell’effettiva conferma del contagio da parte dei tamponi, che rilevano il virus soltanto dopo alcuni giorni dall’infezione. Ciò significa che pur limitandosi a «predire» (non certo a rilevare) la presenza del Sars-CoV-2 nel corpo dell’utente, gli Apple Watch possono risultare un prezioso alleato per far sì che individui potenzialmente positivi adottino tutte le cautele necessarie a non diffondere il patogeno. In aggiunta, la ricerca ha anche rivelato che la variabilità della frequenza cardiaca dei partecipanti infetti si è normalizzata piuttosto rapidamente dopo la diagnosi, tornando nei consueti limiti nel giro di una-due settimane dopo i test molecolari.
Il precedente di Stanford
Non è la prima volta che la scienza mette in luce come gli smartwatch possano giocare un ruolo importante nel contrasto al Covid-19. Già a novembre, infatti, cambiamenti precoci nella frequenza cardiaca di soggetti poi dimostratisi positivi erano stati segnalati anche da uno studio dell’Università di Stanford pubblicato su Nature Biomedical Engineering. In quel caso, oltre agli Apple Watch, erano stati impiegati anche tracker di Garmin, Fitbit e di altri marchi del settore. I risultati erano stati altrettanto degni di attenzione, in quanto l’81% dei contagiati aveva manifestato modifiche nella frequenza cardiaca fino a nove giorni e mezzo prima della comparsa dei sintomi. Sarà ora compito degli esperti, e in particolare delle aziende produttrici, capire in che modo abilitare il singolo utente ad accorgersi dei cambiamenti «sospetti» in piena autonomia. Solo in questo modo tali evidenze potranno apportare concreti benefici nel mondo reale.
Il fact sheet si propone quale documento di indirizzo tecnico-scientifico nel merito della gestione da rischio chimico nel comparto edile, in particolare la scelta dei dispositivi per la protezione della cute e i dispositivi per la protezione delle vie respiratorie.
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