QUANDO I DPI ERANO A FORMA DI BECCO
Da National Geografic
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Da Insalute.it
Come integrare l’uso di dispositivi di protezione individuale e la gestione degli effetti negativi del caldo sull’uomo, questo il tema dello studio coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Cnr di Firenze e pubblicato su “Science of the Total Environment”. Una efficace misura di contenimento dello stress da caldo è un sistema di allerta personalizzato integrato con consigli comportamentali,basato su caratteristiche ambientali, fisiche, attività svolta, vestiario e dispositivi di protezione indossati. Alla realizzazione di un primo strumento ha partecipato anche il Cnr-Ibe nell’ambito del progetto Heat-Shield e ulteriori implementazioni sono previste nel progetto nazionale Worklimate
Roma, 9 luglio 2020 – Uno studio, coordinato dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibe) e pubblicato recentemente come “Discussion” sulla rivista Science of the Total Environment, ha analizzato l’interazione tra alcune misure per contrastare la diffusione del Covid-19 e la gestione dello stress da caldo.
“La popolazione per contrastare la diffusione del virus deve usare mascherine e guanti in plastica o lattice, soprattutto se impegnata in particolari attività lavorative dove non è possibile garantire il distanziamento sociale – dichiara Marco Morabito del Cnr-Ibe – Questi dispositivi non sono nati per un utilizzo massivo e prolungato all’aperto in particolare all’esposizione dei raggi solari e non sono testati dal punto di vista microclimatico e del potenziale impatto sulla percezione del disagio termico”.
In questo lavoro sono discusse le varie complicanze dal punto di vista microclimatico legate all’uso di questi dispositivi in condizioni di caldo. Per contrastare la diffusione del Covid-19, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle ultime linee guida raccomanda l’uso delle mascherine tra la popolazione e recenti ricerche scientifiche dimostrano che il loro utilizzo in pubblico rappresenta la misura più efficace per contrastare la trasmissione del virus Sars-Cov-2, è necessario quindi individuare misure e strumenti per riuscire a convivere con tali dispositivi dovendo contemporaneamente gestire l’emergenza caldo.
“Il sistema di allerta da caldo personalizzato per i lavoratori, è uno strumento già disponibile online sulla piattaforma del progetto Heat-Shield, che permette,sulla base delle caratteristiche fisiche, del tipo di attività, del vestiario indossato e dell’ambiente di esposizione, di prevedere un rischio da caldo ‘individuale’, integrato con suggerimenti per contrastare la situazione, come idratazione e pause di lavoro. Si tratta di informazioni utili per salvaguardare la salute dei lavoratori e assicurare la produttività di diverse aree professionali”, spiega Morabito.
Una versione più avanzata del dispositivo sarà realizzata nell’ambito di Worklimate, un progetto italiano iniziato il 15 giugno, coordinato dal Cnr e finanziato da Inail, in cui, attraverso l’analisi di casi studio in vari ambiti occupazionali, di questionari somministrati a lavoratori e attività epidemiologiche, sarà migliorato il sistema di allerta da caldo personalizzato, sia con una migliore risoluzione spaziale e temporale sia tenendo in considerazione l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale e di misure igieniche come le cosiddette “mascherine di comunità”, ovvero quelle monouso o lavabili, realizzate con materiali idonei a fornire un’adeguata barriera per naso e bocca.
Da superabile.it
Gli esperti li chiamano “lavoratori outdoor” perché svolgono una frazione significativa del proprio orario lavorativo all’aperto e sono interessati dalle patologie correlate con l’esposizione a luce solare. Sono gli agricoltori, i giardinieri, i portuali, gli operai, ma anche gli istruttori di sport all’aperto, i benzinai, i portalettere, i bagnini, i vigili urbani e l’elenco non finisce qui. Sono tutte persone che per lavoro devono stare sotto il sole, spesso troppe ore e senza protezione. A loro e ai datori di lavoro è stato dedicato in passato un opuscolo, curato da Adriano Papale, medico ricercatore dell’Inail (ex Ispesl), “La radiazione solare ultravioletta: un rischio per i lavoratori all’aperto”, una guida sempre utile con consigli e le valutazioni sul rischio da esposizione solare, di cui esamineremo in questo approfondimento i principali aspetti suggeriti in ambito preventivo.
Come l’Inail misura la potenza del sole. Il laboratorio Agenti fisici del dipartimento Igiene del lavoro dell’Inail (ex Ispesl) svolge attività di ricerca sulla prevenzione dei rischi di esposizione lavorativa alle sorgenti di radiazioni ultraviolette, visibili e infrarosse di origine artificiale ma anche, e da più tempo, sulle problematiche relative all’esposizione lavorativa alla radiazione ultravioletta solare. Il laboratorio dispone di un radiometro solare situato sul tetto del Centro di ricerca di Monteporzio. Si tratta di uno strumento di precisione che misura la potenza che il nostro sole “dona” al nostro pianeta nelle varie bande dello spettro elettromagnetico, in particolare, misura la potenza per unità di superficie (irradianza) nelle bande Uva e Uvb. Da questi dati è possibile ricavare l’Uv-Index, una semplice scala di valori da zero a 11, che permette di quantificare con estrema semplicità il fattore di rischio di esposizione alla radiazione ultravioletta solare da “basso” (1-2), a “medio” (3 a 5) fino a “molto alto” (da 6 a 10). Questi studi sono coordinati da Massimo Borra, ricercatore, che ha progettato un portale per gestire, visualizzare e condividere i dati dei radiometri istallati e di tutti i futuri radiometri di altre istituzioni pubbliche o meno che vorranno utilizzare i vantaggi della rete.
I rischi da eccessiva esposizione ai raggi Uv. La radiazione solare ultravioletta deve essere considerata a tutti gli effetti un rischio di natura professionale per tutti i lavoratori outdoor e deve essere posto alla stregua di tutti gli altri rischi (chimici, fisici, biologici) presenti nell’ambiente di lavoro. La permanenza al sole per un periodo più o meno prolungato (la variabilità è soggettiva) può provocare, in particolare se la pelle non è già abbronzata, la comparsa dell’eritema solare. Se l’esposizione è stata particolarmente intensa possono comparire vescicole o bolle seguite da erosioni (ustioni solari). Altro tipo di lesione cutanea è la fotosensibilizzazione, reazione secondaria all’assunzione di alcune sostanze (soprattutto farmaci o composti chimici fotosensibilizzanti contenuti in creme, cosmetici o profumi), con meccanismo tossico o allergico nel momento in cui ci si espone al sole.
Dal fotoinvecchiamento alle neoplasie. Fenomeni rilevanti a carico della cute sono anche il fotoinvecchiamento e la foto carcinogenesi, effetti cronici che derivano dall’accumularsi dei danni causati da esposizioni prolungate nel tempo (anni), al sole e/o a fonti artificiali e sono tanto più precoci e marcati quanto più la pelle è chiara o non adeguatamente protetta. Le neoplasie cutanee possono essere di origine epiteliale come le cheratosi solari, gli epiteliomi spinocellulari (o squamocellulari) e gli epiteliomi basocellulari e di origine melanocitica, come il melanoma. L’esposizione cumulativa ai raggi ultravioletti favorisce l’instaurarsi dell’epitelioma (o carcinoma) squamocellulare. Questa neoplasia infatti presenta un’incidenza massima nelle persone con una esposizione ai raggi Uv cumulativa elevata nel corso della propria vita e tipicamente in chi svolge un’attività lavorativa all’aperto – come marinai e agricoltori – e le sedi più frequentemente colpite sono quelle più esposte al sole (volto, cuoio capelluto, dorso delle mani). Per quanto riguarda invece la relazione esistente tra esposizione a raggi Uv e insorgenza del carcinoma basocellulare e del melanoma maligno, gli studi indicano che le due neoplasie sono legate a un’esposizione massiva al sole, soprattutto in chi tende più a scottarsi. Il rischio di melanoma è maggiore nelle aree corporee coperte, cioè non abituate al sole e, sottolineano gli esperti, per i soggetti che normalmente non si espongono al sole per motivi professionali.
Ma quanto sono esposti i lavoratori outdoor? La ricerca “Neoplasie cutanee non-melanoma nei lavoratori professionalmente esposti a radiazione solare ultravioletta”, condotta (nel 2007) dalle sezioni di Medicina del lavoro e tossicologia occupazionale e di Dermatologia dell’Università degli studi di Siena, in collaborazione con il dipartimento di Medicina del Lavoro Inail (ex Ispesl) e il Dipartimento di Prevenzione della Ausl n.7 di Siena, ha evidenziato che i lavoratori outdoor del comparto agricolo della Toscana sono esposti a dosi elevate di radiazione solare ultravioletta. Tipici valori di Med (minima dose d’esposizione alla radiazione solare per produrre arrossamento entro le 24 ore successive) per un individuo caucasico, debolmente pigmentato, vengono largamente superati (per un fattore da 6 a 30 volte) anche all’inizio della stagione lavorativa outdoor (Aprile). L’età media dei casi epitelioma riscontrati occorsi nella popolazione agricola studiata si è rivelata molto alta, compatibile con il lungo periodo di latenza della neoplasia, con un’esposizione lavorativa media alle radiazioni solari molto lunga (42,9 anni nei maschi e 36,3 anni nelle femmine).
Le tutele legislative: un aggiornamento. La legislazione riguardante la protezione dagli Uv risale al 1956. La protezione dei lavoratori nei confronti degli agenti fisici è oggi disciplinata al titolo VIII del D.lgs 81/2008. Il capo V del titolo VIII del D.lgs 81/2008 recepisce la direttiva 2006/25/CE e si applica solo ai lavoratori esposti a radiazioni ottiche artificiali durante il lavoro. Visto che il campo di applicazione del D.lgs 81/2008 è esteso a tutti i rischi per i lavoratori, la valutazione dei rischi e le relative misure di tutela vanno poste in atto anche per i lavoratori esposti a radiazioni ottiche di origine naturale, in pratica alla radiazione solare. La norma Uni En 14255 “Misura e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti” è composta da 4 norme che trattano le sorgenti articiali; tra queste la terza, la Uni En 14255-3, si applica, invece, al caso di esposizione residenziale e lavorativa alla radiazione solare e può essere utilizzata come indicazione per effettuare una valutazione del rischio occupazione alla radiazione naturale. Attualmente il decreto ministeriale 9 aprile 2008 (G.U. n. 169 del 21 luglio 2008) “Nuove tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura” ha inserito la seguente voce tra le malattie tabellate “malattie causate da radiazioni solari”: cheratosi attiniche; epiteliomi cutanei delle sedi fotoesposte; altre malattie causate dalla esposizione professionale alle radiazioni solari.
Le strategie di protezione: i consigli degli esperti. La fotoprotezione ambientale, come sottolinea Papale, consiste nell’attuare una sorta di schermatura con teli e con coperture, ove possibile, e fornire cabine schermate per i lavoratori che devono sostare a lungo all’aperto. Per creare zone d’ombra esistono anche strutture portatili (simili a ombrelloni) che il lavoratore sposta secondo le proprie esigenze. Bisognerebbe poi sfruttare le ombre degli alberi o di costruzioni vicine e fornire al lavoratore un luogo ombreggiato per le pause. Un altro consiglio è l’organizzazione dell’orario di lavoro: durante le ore della giornata in cui gli Uv sono più intensi (ore 10/14 oppure 11/15 con l’ora legale) dedicarsi ai compiti svolti all’interno, riservando quelli all’esterno per gli orari mattutini e serali.
L’importanza di creme solari, abiti adeguati e occhiali. Anche i prodotti antisolari (creme con filtri solari) hanno dimostrato la loro validità nel ridurre l’incidenza sia di alterazioni neoplastiche epiteliali della cute sia il fotoinvecchiamento. E ancora indossare un cappello in tessuto anti Uv, a tesa larga e circolare (di almeno 8 cm.) per proteggere capo e viso. Quando si lavora al sole, anche se fa caldo non bisogna scoprirsi, vanno usati invece abiti leggeri e larghi, maniche e pantaloni lunghi e tessuti che proteggano dai raggi Uv. Non dimentichiamo infine di proteggere gli occhi. Infatti l’esposizione per una o due ore senza protezione, può determinare arrossamento e bruciore (cheratite) dovuta alla radiazione Uva che può favorire, soprattutto nei più giovani, la formazione precoce di cataratta. Gli occhiali da sole proteggono anche da quella parte dello spettro visibile ancora molto energetica (luce blu) che, raggiungendo la retina e contrariamente agli Uva assorbiti tra la cornea e il cristallino, può provocare, reazioni fototossiche alla base di potenziali effetti di degenerazione maculare senile.
La prevenzione più efficace? Un po’ di “buon senso”. Insomma, come rileva Massimo Borra, l’esposizione alla radiazione solare deve essere “pensata” per poterne godere degli aspetti benefici e salutari senza incorrere, o perlomeno rendendo minimi, gli immancabili ma “naturali” effetti dannosi. “Per lavorare correttamente all’aperto limitando i rischi di esposizione alla radiazione solare dobbiamo solo ritrovare il “buon senso al sole” dei nostri nonni e bisnonni contadini, che si alzavano all’alba per mietere il grano, riposavano all’ombra durante le ore di canicola e vestivano camicie e cappelloni di paglia”, conclude Borra. “Se poi consideriamo che forse non sapevano neppure leggere e che “sicurezza del lavoro” forse significava solamente “certezza di un salario” alla fine della giornata, allora possiamo essere sicuri che, se ci sono riusciti loro, con un po’ di “buon senso” anche noi, oggi, possiamo lavorare nel modo corretto “alla luce del sole”. (fonte Inail)
L’opuscolo è il prodotto finale di una manifestazione d’interesse voluta da Inail, Direzione regionale Campania, e il Dipartimento di medicina veterinaria e produzioni animali dell’Università di Napoli, Federico II.
I micromiceti e le micotossine (metaboliti fungini tossici), sono contaminanti naturali rinvenibili frequentemente nei prodotti dell’agricoltura. Essi possono costituire un’importante causa o concausa determinante l’insorgenza o la progressione di patologie respiratorie (sindrome da polveri organiche tossiche, effetti irritativi, tosse, asma, bronchiti croniche, neoplasie). I soggetti maggiormente esposti sono tutti i lavoratori che a vario titolo maneggiano i prodotti di origine agricola anche provenienti, attraverso mezzi di trasporto, da vari paesi del mondo.
Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it
Il documento descrive le fasi di cui si compone l’attività di prima verifica periodica dei generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso per impianti centrali di riscaldamento utilizzanti acqua calda sotto pressione con temperatura dell’acqua non superiore alla temperatura di ebollizione alla pressione atmosferica, aventi potenzialità globale dei focolai superiore a 116 kw.
Il lavoro fornisce le indicazioni per la gestione tecnico-amministrativa della verifica, comprensiva delle istruzioni, la compilazione della scheda tecnica e del verbale di prima verifica periodica.
Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Si – Consultabile anche in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it
Il quesito. A seguito dell’emergenza sanitaria ho cominciato a lavorare in smart working nella mia azienda con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Sono un impiegato addetto al servizio call center della gestione emergenze. Lavoro con un sistema di turnazione che, allorché mi recavo in azienda, mi dava diritto al buono pasto.
Il mio datore di lavoro ritiene che con il sistema di smart working io non abbia più diritto al ticket, nonostante i miei orari di lavoro (7.30–15.30, 15.30–23.30, 23.30–7.30) non siano cambiati, costringendomi dunque a lavorare anche durante i pasti. Il diritto al buono pasto cessa in presenza di condizioni di lavoro che non siano vincolate, ma, avendo io il vincolo della turnazione, la fattispecie non sarebbe quella del telelavoro? In questo caso il ticket non sarebbe ugualmente un mio diritto? G.C. – Napoli
La risposta. La ripartizione in turni dell’attività lavorativa non implica necessariamente che l’istituto applicabile al caso di specie sia quello del telelavoro (caratterizzato da una diversa disciplina), dal momento che la ripartizione in turni atterrebbe a esigenze di carattere organizzativo dell’impresa.Per quanto concerne i buoni pasto, l’articolo 20 della legge 81/2017 prevede che il lavoratore la cui prestazione lavorativa viene resa in modalità cosiddetta agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno della azienda.
A tale riguardo occorre, tuttavia, precisare che l’articolo 6 del Dl 333/1992 (convertito con legge 359/1992) esclude, in linea generale, la connotazione retributiva dell’indennità di mensa, in quanto servizio sociale predisposto nei confronti della generalità dei lavoratori, salvo che la contrattazione collettiva non ne preveda una diversa qualificazione.Pertanto, ove la contrattazione collettiva preveda l’erogazione di una indennità sostitutiva alla generalità dei lavoratori, inclusi coloro che, in concreto, non utilizzano il servizio mensa, questa indennità perderebbe il suo carattere assistenziale, per assumere natura retributiva e diventare computabile negli istituti retributivi differiti.
Diversamente, non vi sarebbero i presupposti per il riconoscimento dei buoni pasto ai lavoratori che svolgono l’attività lavorativa in modalità cosiddetta agile.
Il quesito è tratto dall’inserto L’Esperto risponde, in edicola con Il Sole 24 Ore di lunedì 13 luglio 2020
Questo interessante volume raccoglie in una veste agile con grafica tradizionale, i principali esercizi riabilitatori osteoarticolari divisi per distretti. Le patologie ortopediche sono le più ubiquitariamente diffuse in ambito lavorativo e pertanto questa pubblicazione può rapprentare un valido supporto informativo per tutti i sanitari e gli specialisti della prevenzione e della riabilitazione
Principali esercizi fisici per i vari distretti articolari del corpo da effettuare a seguito di evento post-traumatico e ortopedico.
Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
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Da Inail.it
Le tecnologie additive (cosiddette stampanti 3D) si stanno sempre più diffondendo anche nel settore manifatturiero.
Il lavoro pubblicato ha l’obiettivo di fornire un riferimento per l’individuazione e la caratterizzazione dei pericoli specifici presenti nelle attrezzature che adottano la tecnologia Powder Bed Fusion/sintering laser o a fascio di elettroni. Le stampanti 3D inserite in luoghi di lavoro rientrano infatti nel campo di applicazione del d.lgs. 81/08 e s.m.i. che individua, in merito all’uso di attrezzature di lavoro e alla sicurezza dei luoghi di lavoro, specifiche figure e ruoli per l’espletamento di attività volte ad assicurare e mantenere un adeguato livello di sicurezza.
Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Si – Consultabile anche in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it
Da il sole24ore.it
Da una parte, le temperature che in questi giorni d’estate hanno iniziato ad arroventare le nostre città. Dall’altra, un dubbio, emerso da letture e interpretazioni, chiusi nel lockdown per il Covid-19: ma in questa estate sarà possibile accendere gli impianti di condizionamento o i sistemi di climatizzazione rischiano di essere un veicolo per il diffondersi del virus in ambienti chiusi?
Due concetti base
La risposta sta in una serie di concetti chiave, che vanno compresi. Primo: la sanificazione dei sistemi e la pulizia dei filtri (consigliata di recente anche da un documento di linee guida emanato dall’Istituto Superiore di Sanità) non è una pratica straordinaria cui dobbiamo ricorrere quest’anno, in via eccezionale, per scongiurare il rischio coronavirus. «Si tratta, al contrario, di una buona norma, che andrebbe praticata sempre – spiega Giuseppe Bonfante, esperto della Onleco, società di consulenza e servizi ingegneristici – che si sia reduci o meno da un periodo straordinario come quello vissuto la scorsa primavera. Anche perché gli interventi di pulizia professionale possono favorire una maggiore efficienza dell’impianto».
Secondo: occorre distinguere da impianto a impianto. Gli impianti di climatizzazione (specialmente quelli installati nelle nostre case, che lavorano con un’unità esterna e uno o più split interni) non sono in grado di introdurre in casa un virus presente all’esterno né di diffonderlo nell’ambiente o di concentrarlo, per il semplice motivo che i ventilatori esterni lavorano in sinergia con l’unità interna in modo ermetico: non c’è scambio d’aria, ma solo un gas refrigerante che corre tra le due unità. Ipotizziamo però che all’interno dell’appartamento ci sia una persona affetta dal virus. Anche in casa, in linea teorica, il virus potrebbe essere spostato dal movimento dell’aria, ma il medesimo principio vale anche per i ventilatori o le pale a soffitto.
I sistemi centralizzati
Una condizione che peggiora laddove i sistemi di climatizzazione siano centralizzati (è il caso di uffici, alberghi, ma anche mezzi di trasporto): si tratta di impianti che, in genere, prelevano l’aria da un ambiente e la trattano, trasferendola anche in un altro ambiente. Il virus, in questo caso, può spostarsi anche fra locali diversi. «Per diminuire il rischio e ridurre la carica virale dell’ambiente – spiega Alessandro Giuliani, di nrgzero – è possibile aumentare i ricambi orari di aria esterna. Tenendo conto che l’operazione può ovviamente incidere sui consumi energetici, visto che la macchina dovrà lavorare di più per riscaldare, raffrescare o umidificare l’aria. Per questo, per ciò che riguarda il comparto residenziale o gli uffici a ridotto afflusso di persone, ventilare e mantenere dei buoni standard di igiene, controllando l’assenza di persone infette, può essere sufficiente».
Esistono poi sistemi di sanificazione specifici, come filtri Hepa ad hoc o tecnologie che vanno dall’impiego di lampade UV alla ionizzazione e ozonizzazione degli spazi. Va detto che non esistono però studi specifici rispetto alla comprovata efficacia verso il coronavirus. «Più in generale, se dal solo Covid parliamo di qualità dell’aria indoor, oltre a inserire impianti di ventilazione meccanica controllata o naturale – prosegue Bonfante – è possibile anche ricorrere a sistemi capaci di misurare la presenza in uno spazio di inquinanti chimici, biologici e fisici e che avvertono chi è all’interno sulla necessità di ventilare».
La pulizia
Compreso il quadro, come si può pulire una macchina già installata in casa? Premesso che la pulizia principale dei climatizzatori andrebbe fatta a fine stagione (verso settembre-ottobre) e ripetuta a inizio estate, per evitare che polvere e sporco si incrostino sull’apparecchio durante l’inverno, l’operazione può essere fatta anche dal singolo proprietario di casa. Con l’interruttore elettrico dedicato o staccato, occorre innanzitutto controllare che griglie e i filtri siano puliti: le prime sono in genere supporti di plastica, che possono essere igienizzati con acqua calda e sapone. Per ciò che riguarda, invece, i filtri sono sovente lavabili e possono essere sostituiti con una cadenza almeno mensile.
Il motore esterno, se posizionato in un luogo raggiungibile, si può spazzolare (anche con l’aspirapolvere) e lavare con un panno umido e sapone. Ogni altro controllo, come quello del liquido refrigerante, va effettuato annualmente da un tecnico: più che altro è di nuovo per una questione di efficienza (ad esempio, per il rischio di eventuali perdite di pressione).
Sui luoghi di lavoro la mascherina va indossata sempre e non va considerata un’alternativa al distanziamento fisico. Lo sottolinea Francesco Violante, direttore dell’unità Medicina del lavoro del policlinico Sant’Orsola di Bologna e ordinario dell’Alma Mater, che oggi ne ha parlato durante una commissione del Consiglio comunale. “In questo momento nella nostra area la circolazione del virus è fortemente ridotta rispetto ai mesi scorsi, questo però- avverte l’esperto- non deve far dimenticare che le precauzioni che devono essere mantenute vanno rispettate rigorosamente”.
I nuovi focolai, come quello visto alla Bartolini, “sono il frutto del fatto che a causa anche della bassa circolazione del virus- continua Violante- le persone dimenticano che il virus c’è ancora e che va mantenuta la protezione, cioè la mascherina sul viso durante l’attività lavorativa”. E’ chiaro che d’estate fa caldo ma “è un disagio che invito tutti ad accettare“, afferma Violante, perché quando ci si trova in mezzo a colleghi e fruitori di un servizio “si pone il tema della necessità di proteggere tutti”.
Violante fa il paragone con la cintura di sicurezza: “Nella maggior parte delle situazioni in cui ci troviamo in auto è totalmente inutile, perchè facciamo il nostro percorso e arriviamo senza aver fatto incidenti, ma non potremo mai sapere quando la cintura ci servirà”. Con la mascherina “funziona allo stessa maniera, nel 90% o più dei contatti che avrò durante una giornata di lavoro sarà tecnicamente inutile, ma non posso sapere quando mi servirà e per questo devo tenerla addosso in ogni momento”. E se ci si chiede se la mascherina è alternativa al distanziamento, “la risposta è no. E’ il mezzo di protezione individuale più importante che si aggiunge al distanziamento”, afferma l’esperto.
Certo, “se la distanza è molto grande, dieci o 15 metri e se sono all’aperto- continua il direttore della Medicina del lavoro- la possibilità che una particella virale mi raggiunga è virtualmente nulla, ma se mi trovo in un ambiente chiuso con diverse persone, il puro e semplice distanziamento fa bene, non è che non serva, però dev’essere supplementato dall’utilizzo della mascherina”.
C’e’ anche un tema di carattere pratico, aggiunge Violante: “Se fossimo tutti seduti alla nostra scrivania e non ci muovessimo mai, mantenendo sempre un’ampia distanza dalle persone più vicine, potremmo anche pensare che la mascherina non è così necessaria, ma la vita lavorativa è diversa” perché “mi alzo, parlo con i colleghi, vado a chiedere un’informazione”. Insomma la famosa distanza minima di un metro “è una misura che negli ambienti di lavoro non può essere garantita in modo assoluto”, avverte Violante, dunque “la mascherina va comunque tenuta”.
Lo stesso vale per le occasioni in cui si parla in ambienti collettivi, come le aule istituzionali. “L’esigenza di farmi sentire fa sì che io usi un tono di voce più forte del normale e quindi l’emissione di aria dei polmoni è maggiore”, spiega l’esperto, anche se “capisco ci siano problemi importanti”. Non vedendo le labbra di chi parla, ad esempio, “chi ha difficoltà uditive percepisce meno le parole- segnala Violante- e questo richiede una diversa sonorizzazione degli ambienti collettivi per tenere conto delle necessità delle persone, tante, che hanno un disturbo dell’udito”. E’ un tema che si pone anche a scuola, in particolare per le fasce d’età in cui i bambini imparano a leggere, sottolinea Violante, perché “guardare le labbra della maestra é un elemento importante per apprendere una lingua”: non a caso, “ci sono esperti che stanno studiando questi temi”.
Il Covid-19 “non dà segni di voler scomparire”, quindi “le protezioni dovranno accompagnarci per i prossimi mesi, è un tema a cui dobbiamo rassegnarci”.
Dal quotidiano la Repubblica.it